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“Suspiria” di Argento e l’estetica di Tovoli

Noto principalmente per le sue collaborazioni con Michelangelo Antonioni, Tovoli si trovò proprio con Suspiria ad avere a che fare per la prima volta con il genere horror. Ciò rappresentò una sfida non indifferente per un artista che mai aveva preso parte ad una produzione di questo tipo, ma d’altro canto si rivelò anche motivo di fascino per la gamma di possibilità che un genere fantastico poteva offrire dal punto di vista visivo. 

“Climax” versus “Suspiria”

Climax di Noé è invece un vero e proprio aggiornamento del testo originale, capace di proiettare il racconto di Argento nella contemporaneità. I ballerini appartengono alla stessa compagnia ma sono, prima che membri di un gruppo, soggettività indipendenti, come ribadito dalla loro presentazione mediante i tapes. Tutte le frizioni individuali, ignorate nel primo Suspiria e accennate da Guadagnino, escono qui allo scoperto: il cast è frammentato in una miriade di piccoli nuclei che si attraggono e respingono, creando una galassia di interazioni assenti negli altri due film. Anche la forma del ballo viene rivoluzionata: ogni legame con la tradizione classica e il suo sottotesto di disciplina dei corpi è negata.

“Climax”, il cinema strabordante

Un film in cui ogni simbolo si dà immediatamente nel suo significato testuale – “francese e fiero di esserlo”, con tanto di correlativo oggettivo tricolore, a scanso di equivoci – e talmente cristallino nella sua genealogia intellettuale da contenere, in apertura, una bibliografia (volumi di Nietzsche e Bataille, DVD di Eraserhead, Salò o le 120 giornate di Sodoma, Possession, La maman et la putain e tanti altri, Suspiria compreso, danno bella mostra di loro nel quadro iniziale). Il delirio si dispiega fino ad occupare la metà del film non è male strisciante nella società né disagio esistenziale: è delirio punto e basta, puro e acidissimo come le tinte del film, indotto da una banale sangria corretta all’LSD.

“Suspiria” – perché sì

Laddove Argento riusciva ad animare le proprie efferate scene di furia omicida investendole di una carica quasi sessuale, Guadagnino punta all’evocazione di una violenta aura funerea partendo dall’armonia coreografica di macabre sequenze danzate. Ma il principale tributo risiede, tuttavia, nella volontà di aggredire lo spettatore, giocando con le sue aspettative e stravolgendole con virate narrative inattese, attraverso un epilogo squilibrato e dirompente. Una cifra canonica del cinema di Arganto, il quale, nonostante l’inopportuno paragone con Hitchcock conferitogli all’epoca degli esordi, si è spesso distaccato dai convenzionali metodi di costruzione delle suspense in virtù di percorsi più tortuosi, imprevedibili e drastici. Con la medesima baldanza, Guadagnino mira alla preparazione del proprio gioco di prestigio confondendo e depistando gli sguardi al fine di garantire un’eco più roboante al lacerante affondo finale.

“Suspiria” – perché no

Il rosso vivido che schizza sulle pareti, i corpi nudi che si contorcono e la magia rimangono congelati come in una Polaroid. La ferocia di Quentin Tarantino non si addice a Guadagnino perché non ne mostra la visceralità intrinseca, bensì si limita ad esporre le viscere. Gli effetti speciali e la colonna sonora di Thom Yorke non aiutano a sorreggere il film. Così come né l’androgina bellezza dell’attrice feticcio Tilda Swinton (madre e amatrice solinga), né le bellezze di un cast che attinge, anche nello stile, da Fassbinder, non sono riusciti a liberare Guadagnino dalle catene della sua mente. Il regista quindi non riesce a far sua Suspiria, si attornia di madri-padrone costruendo un’immensa tela, apparentemente bellissima, senza poi riuscire a districarsene, forse anche a causa della sceneggiatura di David Kajganich.

Ode e requiem alla madre. La musica in “Suspiria”

Lavoro strabordante e stratificato, il Suspiria di Guadagnino guarda quello argentiano in superficie, ne coglie le coordinate narrative e ne stravolge lo spirito in un denso impasto in chiave femminile e femminista. Se il “maschile” appariva negato nel capolavoro del 1977, nel (non) remake è attraversato dalla crudele pietas della donna per un mondo morente e per un universo maschile ostracizzato nell’anima, piuttosto che respinto dalla scena. Mai come in questo caso si è lontani dall’anarchica rappresentazione del sabba, le streghe si collocano al di là del bene e del male, in una dimensione che unisce l’orgoglio e la vanità, la potenza ferina e la caparbia volontà di intrecciare il sodalizio in un corpo unico, come quello rappresentato nella danza Volk.

Venezia 2018: “Suspiria” di Luca Guadagnino

Con la danza, il corpo emana vitalità ed energia senza eguali, pulsioni e muscoli che si distendono e contraggono in solitudine o durante un pas de deux, oppure, ancora di più, nella coralità di una coreografia di insieme, in cui l’interpretazione delle singole variazioni cresce e si consuma all’interno di sé ed è, quindi, personale, quasi privata, ma nel contempo funzionale a renderne l’architettura generale: una dialettica di anime e corpi che si sfregano gli uni contro gli altri, incontrandosi e scontrandosi, amandosi e ferendosi. E questo il coreografo di Suspiria lo sa benissimo, poiché, del remake del capolavoro argentiano diretto da Luca Guadagnino, strega il lavoro compiuto sui corpi e sull’essenza stessa del movimento, quando ci si avvicina a un tal genere di espressione dell’io.

“Suspiria” e le sonorità dello shock

L’epifania sonora che permise il sodalizio tra Dario Argento e i Goblin, partì proprio dal brano The Swan Is a Murder Pt. I che, secondo la leggenda, sconvolse Daria Nicolodi al punto da suggerire al marito di usare la loro musica come accompagnamento “narrativizzato” alle sue scene-assolo. Dioscuri del cinema del maestro, ponte sonoro tra la terra e le potenze infere del sotto-mondo, i Goblin di Claudio Simonetti hanno saputo orchestrare, in particolar modo con la colonna sonora di Suspiria, partiture che si associano sempre di più al cinema dello shock, rievocanti atmosfere sabbatiche in sospensione tra urla soffocate, sinistri rumori di fondo e nenie ispirate al folclore mitteleuropeo. Lo sperimentalismo combinatorio della band è un felice connubio tra influenze seventies ed eighties.