Svengali (Archie Mayo, 1931, con John Barrymore) è uno dei più importanti film americani degli anni Trenta. Incredibilmente risulta inedito in Italia se non in DVD fuori catalogo e poco citato dagli studi sui film hollywoodiani. Si tratta di un caso davvero raro. Ci troviamo di fronte a un film ibrido e particolare, che concentra in sé le caratteristiche del miglior cinema muto, in particolar espressionista, e gli elementi di maggior funzionalità del cinema americano, compresi collaboratori e attori. A ben pensarci, infatti, questa storia di sopraffazione e plagio sembra uscita dal perfetto manuale del buon Espressionista. Come il Caligari, come il rabbino creatore del Golem, come lo scienziato della Maria di Metropolis, come Faust, anche Svengali è un uomo irrazionale e dominante, che punta a soggiogare le proprie vittime attraverso magia nera e trucchi ottici. Come allora, forse, l’insistenza su queste figure della follia e del male rimanda alla situazione storica: Hitler per la Germania e… Hitler per l’America. Se prima si trattava – secondo l’interpretazione del sociologo Kracauer - di un presagio della tragedia nazista, ora si tratta più probabilmente di una metafora consapevole.

Svengali è impregnato di cultura europea, anche per ciò che concerne l’immaginario evocato. Svengali è una specie di Rasputin dall’occhio spiritato, dalla barba appuntita. Cammina a gambe larghe, incerto e segaligno, ma emana un fascino orrendo, cui è difficile sfuggire. I suoi poteri medianici soggiogano la protagonista Trilby, come dimostra la sequenza più sorprendente del film. Durante la notte, Svengali “chiama” a sé Trilby, la macchina da presa sembra seguire il flusso della mente, esce dalla stanza del mago e attraversa la città per infilarsi nella stanza della donna, senza uno stacco apparente. E’ un movimento di macchina simulato attraverso i trucchi ottici che, durante il film, evocano e rimandano a quelli di Svengali. Dunque, il film che racconta di ipnosi e perdita delle proporzioni ottiene un trattamento visivo eguale e corrispondente: Mayo, il regista, moltiplica i punti di ripresa, varia le inquadrature e le focali, offre un’impressione di incombenza a paura. Dall’espressionismo trae la tendenza a raffigurare spazi minacciosi, ombre inquietanti, soffitti spioventi, luoghi dalle architetture appuntite e pericolose.

Alla fine, il potere di Svengali si sgonfia come un soufflé e così il carisma del “mostro”. La donna si risveglia e torna alla vita – anche se, come in tutti i film sui malvagi, il “buono” è infinitamente meno affascinante e più ordinario. Nel frattempo, fra la presentazione di Svengali e la sua morte, lo spettatore assiste a un fuoco di fila di invenzioni visive e strategie di ripresa, di idee di regia e svolte narrative. Infiammato come un noir ante-litteram, tenebroso come un horror della Universal, oscuro come un incubo malato, Svengali chiede di essere rivisto per comprenderne la curiosa natura. Un film sonoro girato con le sontuose scelte stilistiche del muto europeo, un film sul male senza una vera presenza del bene, un film onirico che – come La Mummia di Karl Freund (1932) – concentra tutto su un personaggio mefistofelico e in fondo appassionante.

Qualche parola sui realizzatori di questo capolavoro misconosciuto. Archie Mayo non è un nome che noto quanto quelli di Howard Hawks o Billy Wilder, eppure ha firmato alcune importanti opere di genere, dimostrando l’eclettismo classico di molti cineasti della Hollywood degli anni Trenta. La sua carriera alterna, infatti, film oscuri e orrifici come questo, pellicole comiche d’epoca muta, film musicali – importante il suo connubio artistico con il cantante Al Jolson per Sonny Boy (1929, albori del cinema sonoro) o Canzoni appassionate (1935). Il momento di massima celebrità di Mayo è ottenuto grazie al bellissimo La foresta pietrificata (1936), gangster movie di rara introspezione psicologica, con Leslie Howard e Bette Davis. La carriera di Mayo è insomma un po’ il crocevia del sistema dei generi americano, di cui non disdegna il melodramma (La legione nera, 1936, con forti accenti antirazzisti), il film in costume (Avventura a mezzanotte, 1937, o persino Le avventure di Marco Polo, 1938), il film di guerra (sottomarini in Agguato sul fondo, 1943) e un grande exploit con i fratelli Marx (Una notte a Casablanca, 1946). Il suo punto di forza è nella valorizzazione degli elementi della messa in scena, e nella sistematica applicazione di ciò che i produttori mettono a disposizione. Mayo dimostra di esaltare il lavoro degli artisti che ha accanto. In Svengali la macchina da presa è al servizio delle scenografie e dei “settings” di Anton Grot, geniale architetto degli spazi cinematografici di origine polacca, che ha mesmerizzato gran parte dei B-movie hollywoodiani, grazie a un’inventiva prodigiosa e una assai apprezzata tendenza al risparmio artigianale (Piccolo Cesare, 1941, o Il romanzo di Mildred, 1945, tra i noir più famosi cui ha collaborato).

Svengali, però, non avrebbe raggiunto gli obiettivi artistici che stiamo celebrando se non fosse stato per John Barrymore. Sulla famiglia Barrymore e sulle numerose generazioni di attori che ne fanno parte gravano molte leggende: i molti volumi biografici su di loro meritano una lettura. L’ultima Barrymore, Drew, ha fatto di tutto per emulare e superare i più noti parenti attraverso abusi di alcool e stupefacenti già in età puberale. I nonni John e Lionel si limitavano a una passione smodata per il whisky, il gioco d’azzardo e le conquiste sentimentali. La vita dissoluta di John gli permetteva, tuttavia, di portare sullo schermo un magnetismo e un’autenticità assai superiore a quella di molti altri divi. Proprio nella parte del protagonista di questo film, egli offre il meglio di sé, grazie a una recitazione drammatica e tormentata, ipnotizzante (letteralmente) e oscura. Barrymore veniva da ruoli “regali” come Lord Brummel (1924), Don Giovanni (1926), Gli amori di Manon Lescaut (1927) e aveva appena dimostrato di possedere una bellissima voce, in grado di traghettarlo senza incidenti verso i lidi del cinema sonoro. Dopo Svengali, Barrymore dà il volto a dandy internazionali e brillanti (Arsenio Lupin, 1932; Pranzo alle otto, 1933; Il grande profilo, 1940).

Un anno dopo, Barrymore ha ripreso praticamente gli stessi panni del personaggio di Svengali in un seguito non ufficiale, The Mad Genius di Michael Curtiz, dove gli aspetti bizzarri e ironici prendono il sopravvento, smarrendo la compatta atmosfera di questo inimitabile gioiello del cinema occulto.