“Inviato con l’avviarsi della guerra in Manciuria, occupata dai giapponesi, Yamanaka Sadao morirà in un ospedale cinese il 17 settembre 1938, all’età di 29 anni. Se ciò non fosse accaduto, probabilmente la storia del cinema giapponese sarebbe cambiata”.

Con questa frase si chiude l’introduzione fatta da Dario Tomasi presentando il film Tange Sazen and the Pot Worth a Million Ryo di Yamanaka Sadao, realizzato nel 1935 a Kyoto (l’intervento integrale si può vedere sul canale Youtube del Torino Film Festival). Del regista, morto ad appena 29 anni, ci sono rimasti solo tre film dei 26 da lui realizzati, tutti afferenti al genere jidai-geki (film in costume, da noi più conosciuti come film di samurai), in cui però possiamo notare l’interesse per la rappresentazione della quotidianità delle persone nel periodo Edo. Sorprende infatti osservare le abitudini di vestizione e pulizia, di intrattenimento nei locali della città, di usi e costumi dell’antichità messi in scena dai guerrieri, rigattieri, donne di casa e imprenditrici presenti tra i protagonisti di Tange Sazen and the Pot Worth a Million Ryo.

La storia ruota intorno a un vaso sul cui fondo è stata incisa una mappa che porta a un tesoro sepolto del valore di un milione di ryo, del cui valore però sono inconsapevoli i due fratelli legittimi proprietari. Dopo esserselo passato con noncuranza, la scoperta di questo impensabile valore torna a farli confrontare sul suo possesso, attraverso un lungo scambio di missive e messaggeri, ma nella confusione creatasi questo vaso finisce per essere venduto per pochi spiccioli dalla moglie di uno dei fratelli, felice di essersi finalmente liberata di quel sudicio vaso.

Il tono comico del film è immediatamente evidente dalle prime sequenze, anche perché il vero valore dell’oggetto è chiaro a noi spettatori prima che ne vengano a conoscenza i protagonisti, creando una divertita suspense intorno alla fragilità del vaso e alla disattenzione con cui viene gestito. La vera storia prende piede quando questo vaso considerato da poco arriva nelle mani di un bambino che lo usa come boccia per i pesci, e verrà trasportato nella casa del protagonista, Tange Sazen.

Il film stupisce per il suo ritmo moderno, che segue una storia molto movimentata con tanti personaggi che intervengono e prendono parte al passaggio di mano in mano di questo oggetto, più o meno consapevolmente. Restano impresse le modernissime dissolvenze laterali e diagonali (proprio quelle rese iconiche da Star Wars) e il ricorso a delle esilaranti running gag da una scena all’altra, come la frase che ritorna da un personaggio all’altro: la frase “Potrebbero volerci anche dieci, venti anni per recuperare quel vaso” ripresa da più voci o la frequente combinazione di una determinata risposta negativa di un personaggio seguita da una scena successiva in cui questi compie l’azione rifiutata.

Meccanismi semplici ma di eterna efficacia, che personalmente non avevo mai visto in un film giapponese in costume degli anni ’30, e che sono soluzioni utili per approfondire gli interessi e obiettivi dei personaggi coinvolti, aiutandoci a dargli una dimensione tridimensionale e umana, al di là del loro ruolo nella società rappresentata. Il risultato è un film sorprendente e unico, che dovrebbe essere distribuito più ampiamente per conoscere un altro modo di affrontare il jidai-geki. Nell’intervento video sopracitato ha partecipato anche Kurosawa Kiyoshi, che non ha esitato ad affermare che se si interrogassero i cinefili giapponesi questo titolo emergerebbe tra i preferiti molto più di frequente rispetto ai capolavori di Kurosawa, Ozu o Mizoguchi.

La visione di un film così è uno stimolo fondamentale per continuare ad ampliare la nostra conoscenza su quest’arte e rimettere sempre in discussione ciò che già conosciamo, rimanendo disponibili alla scoperta di nuovi capolavori da collocare nel nostro immaginario.