Hessam, un ex campione di body-building che lavora come personal trainer con clienti per la maggior parte anziani e per cui sembra arrivata l’opportunità di girare un film con Louis Garrel; Mina, una donna single sovrappeso con la passione per il gelato che stalkerizza gli uomini più belli del centro estetico dove lavora come receptionist e Vahid, un cantante per funerali religiosi che, per uscire dalla depressione, si inventa una carriera come cantante di matrimoni: sono questi i tre protagonisti di Tehran, city of love di Ali Jaberansari. Sotto la superficie delle convenzioni della commedia degli equivoci, il regista ci mostra la struggente ricerca dell’amore dei tre protagonisti scontrarsi ed estinguersi contro le soffocanti regole della società iraniana.

Il film finisce, come inizia, nel traffico della capitale iraniana con i tre protagonisti a bordo di un autobus notturno a sottolineare la loro solitudine e la loro ricerca d’amore destinata a rimanere insoddisfatta. Circolarmente, il traffico di Tehran non porta da nessuna parte. Tutti e tre, per ragioni diverse, sono considerati potenzialmente inaccettabili dalle tradizioni e dalle leggi dello stato iraniano e ne sono relegati ai margini: anche quando sembra che ci possa essere una svolta nelle loro vite, questa si trasforma in una delusione e in una riaffermazione della loro condizione di emarginati. Il regime non può certo tollerare la casta attrazione, fatta tutta di sguardi e di un cauto (in)volontario sfiorarsi, che Hassam prova, ricambiato, per Arshia, un ragazzo che allena in modo sempre più intenso. Le donne single come Mina, che non rinunciano alle trasgressioni culinarie né al voler decidere da sole quale sia l’uomo giusto per loro, sono destinate ripetutamente ad incontrare uomini sposati.

Ma è nella storia di Vahid, quella apparentemente più innocente, in cui non ci sono potenziali relazioni illecite, omosessuali o extraconiugali, quella nella quale il regime di polizia irrompe esplicitamente, arrestando il felice cantante di matrimoni e riconsegnandolo al suo ruolo di depresso cantante di funerali. È un’irruzione di cui non capiamo fino in fondo il motivo, un avvertimento che rende la minaccia di arresto concreta e imminente. L’arresto dell’innocuo Vahid simbolizza il messaggio di rifiuto della realizzazione e della felicità personali confezionato da parte del regime.

Aiutato da ottimi interpreti e da una colonna sonora efficace nel commentare la malinconia urbana in cui sono immersi i personaggi, Jaberansari imbastisce, insieme alla co-sceneggiatrice Maryam Najafi, una narrazione che parte dalle situazioni più care al genere della commedia degli equivoci: lo scambio di persone o personaggi che si incrociano, senza riconoscersi, in luoghi ricorrenti, come il centro estetico di Mina o il bar dove la donna dà appuntamento agli uomini che stalkerizza. Tuttavia, i diversi quadri che sembrano inizialmente costituire tre linee narrative separate si intrecciano ben presto in un comune orizzonte politico ed estetico: un’amara riflessione meta-filmica su quale forma e contenuto cinematografici siano accettabili alla teocrazia iraniana.

I personaggi principali di Tehran, city of love non fanno, infatti, altro che recitare come gli attori che li interpretano, richiamando l’attenzione del pubblico sulla loro stessa finzione. Hessam parla ripetutamente con la produzione del film di Garrel, Mina si diverte a interpretare telefonicamente la parte della top-model Sara e Vahid si sente sempre su un palco tanto davanti al microfono di un funerale quanto a quello di un matrimonio. Che il suo arresto avvenga proprio mentre è su un palcoscenico è un commento significativo sulle politiche culturali di un regime pronto a tollerare per personaggi come Hessam, Mina e Vahid solo una commedia con un finale che frustra le loro aspirazioni, richiamandoli a recitare i tradizionali ruoli sociali e di genere in cui sono confinati. Tale risoluzione narrativa è il prodotto e, al tempo stesso, il rovesciamento dell’oppressione e della richiesta di sottomissione del regime.