La XV edizione di Archivio Aperto è stata un’occasione per scavare negli archivi. Teorema de Tiempo, documentario del regista messicano Andrés Kaiser, non si limita a questo ma scava nel concetto stesso di archivio. Quella di Kaiser è una teoria in senso etimologico: una visione del tempo (theorein, in greco, significa “vedere, osservare”). Quale tempo? Quello racchiuso nell’archivio di lettere, fotografie e soprattutto filmati dei nonni materni del regista: Arnoldo e Anita. Kaiser allestisce così con rigore e sensibilità una visione profonda, a tratti psicanalitica, sul potere dell’immagine e dell’archivio, come mezzo di sopravvivenza.
Nel documentario non ci sono solo filmati di compleanni, cene, vacanze. Arnoldo e Anita utilizzarono la camera per riscrivere la realtà e l’archivio per nutrire la loro esistenza. Vediamo così veri e propri film amatoriali, scritti, diretti e montati dalla coppia che per anni ha coinvolto tutti, dai figli ai dipendenti di un albergo, in una caleidoscopica riscrittura. Il regista recupera le ossessioni filmiche dei nonni. Quelle di Anita: il mondo guardato fra le grate dei balconi. Ma soprattutto quelle di Arnoldo: l’ossessione per filmare sé stesso, la necessità di realizzare nei film la vita che il padre gli aveva impedito.
Tipografo, nella realtà (o, meglio, in quella realtà lontana dalla camera), Arnoldo diventa nell’immagine filmata un uomo di mondo, un violinista, un ricco signore in vacanza. Ma anche, e più semplicemente, un padre felice. Nei primi film della coppia regnano lo scherzo, il travestimento, il gusto della finzione e della risata. Poi lentamente l’immagine, e il tempo, trasfigurano e accolgono i semi di fantasmi famigliari: in uno dei film Arnoldo e il suo primogenito firmano un contratto come due uomini d’affari. E poi, continuamente, Arnoldo filma sé stesso, si confida con l’occhio della camera, parla, racconta e commenta la realtà. La narrazione è sempre di più una necessità, forse l’unico modo per sopravvivere.
Kaiser fa emergere nello sguardo del nonno, o nella sua ricerca di uno sguardo, dei fantasmi, archiviati, ma mai affrontati. Ecco la potenza dell’archivio e del cinema come archivio: l’immagine che protegge, accoglie i sogni e le pulsioni più profonde, come in un gioco che sfugge di mano e illumina la realtà fino a farla esplodere nella follia. Ad un certo punto il passaggio fra i due mondi, immagine e realtà (o non-immagine), non è più possibile.
Nonostante la sua intimità profonda, il documentario riesce a proporre una riflessione lucida, ma non per questo meno sensibile. L’analisi non stritola il racconto e il commento non è mai eccessivo. Le immagini scorrono con grande delicatezza per poi risuonare o stonare con le parole di una lettera o di una delle testimonianze raccolte dal regista. Il film cerca e trova un rigore notevole, riuscendo a commuovere senza patetismi. Kaiser non dipinge né eroi né vittime, ma a racconta gli uomini e mostra l’occhio dei loro desideri, dei loro bisogni.
In Teorema de Tiempo il gioco sulla visione è a tratti vertiginoso: ciò che vediamo è l’osservazione, del regista, di un archivio di sguardi, che cercano forse di riscrivere una realtà spesso più oscura e drammatica. Ma la vertigine evidenzia un tema fondamentale per l’idea di archivio: nel film la vita emerge come derridiana “origine non rappresentabile della rappresentazione”. Si affermano quindi il potere dell’archivio di costruire la realtà e la difficoltà – o l’impossibilità? – di ricostruire dall’archivio una vita. Kaiser coglie tutto questo con grande sensibilità e non ricostruisce ma guarda e mostra. Il regista filma quindi il suo sguardo sull’archivio, ovvero quel luogo dove Arnoldo nel tempo ha depositato i suoi bisogni più profondi.
E alla fine non sembra davvero importante scoprire chi siamo, ma filmare chi avremmo voluto essere, senza cercare la realtà dietro un’immagine falsificata, ma osservando il falso e le sue ragioni.