Nel 1955 per la britannica Hammer Film Productions la sfida appariva chiara: cavalcare il successo internazionale di produzioni sci-fi come L’astronave atomica del dottor Quartermass e rilanciare, finalmente, anche il genere horror. Fu proprio Terence Fisher a inaugurare il ciclo di rinascita del gotico a colori con La maschera di Frankenstein (1957). Non un semplice remake del Frankenstein di James Whale, ma una chance per condurre il romanzo di Shelley in territori inesplorati.

Costretto dalle pressioni esterne della Universal – decisa a impedire un ricalco del trucco à la Boris Karloff – Fisher sacrifica i connotati iconici in favore di una maschera nuova, messa a punto dal talentuoso Phil Leakey. Meno “robotico” e più “umano”, il volto del mostro (Christopher Lee) rispecchia gli intenti del nuovo corso Hammer: fare delle limitazioni il proprio punto di forza, esaltando gli aspetti più drammatici del racconto. È così che Fisher, liquidato da molti come un semplice mestierante, spiana la strada a un’estetica dell’orrore nuova e brillante che nel fare “di necessità virtù” brevetta un vero e proprio marchio di fabbrica. Tenebrosi villaggi europei, castelli polverosi, sangue e alambicchi vengono valorizzati dal primo sapiente uso del colore nel genere horror, che influenzerà inevitabilmente anche la sua “controparte” americana, Roger Corman. Dopo di lui? Mario Bava e Dario Argento.

Nel suo ciclo di Frankenstein, l’orrore – quello autentico – non risiede tanto nelle creazioni quanto nel cuore del creatore. Interpretato da Peter Cushing, il Barone Victor Frankenstein è un algido calcolatore, tanto cinico quanto arguto, re della morte che si crede sovrano della vita. Completamente accecato dalla sfida lanciata contro Dio e gli uomini, Frankenstein compie nei film di Fisher un viaggio nel titanismo più sfrenato. Ne La maschera di Frankenstein tradirà affetti e amicizie e si spingerà fino al delitto pur di perseguire le proprie ossessioni. Nel suo seguito, La vendetta di Frankenstein (1958), la produzione compie un passo ancora più audace: la nuova Creatura mostra fattezze quasi interamente umane, mentre il Barone ricuce la propria divisa da moderno Prometeo con dosi di hybris sempre maggiori. Con l’aiuto dello sceneggiatore Jimmy Sangster, il personaggio di Shelley viene manipolato al punto da confondersi con la Creatura stessa, con esiti raggelanti per quei tempi.

Sarà Freddie Francis con La rivolta di Frankenstein (1964) a spezzare il continuum di Fisher in ambito Hammer. Una pellicola che, pur conservando tratti distintivi dei precedenti capitoli, compie un passo indietro anche a livello estetico, con una Creatura pericolosamente simile a quella Universal degli anni ’30 e ’40. La missione di Fisher, al contrario, resta quella di offrire un immaginario inedito lavorando sulla sottrazione, ed è proprio grazie alla rottura temporale di Francis che dirigerà il suo film più profondo. Nel 1967 esce La maledizione dei Frankenstein (titolo originale: Frankenstein Created Woman), in cui dimostra di aver raggiunto libertà stilistiche senza precedenti, a dispetto dei mezzi ridotti. Il film si misura con angosce metafisiche, e lo fa in modo squisitamente autoriale, pedinando per la prima volta singolarmente il tormento dei personaggi. Martin Scorsese lo elencherà tra i suoi film preferiti di sempre.

Con Distruggete Frankenstein! (1969), Fisher firma l’atto definitivo: non soltanto il picco di suspense del ciclo Hammer, ma l’irrimediabile corruzione della maschera di Cushing. Per diretto volere del produttore James Carreras, le manie di controllo di Frankenstein condurranno perfino allo stupro, in una spirale di malvagità mai così ampia. Un epilogo esageratamente tetro ma più convincente di Frankenstein e il mostro dell’inferno (1974), l’ultima “Creatura” di Fisher prima della morte. Non si faccia l’errore di liquidarla, tuttavia: resta l’ennesimo atto d’amore di un piccolo grande autore verso le infinite possibilità del cinema.