Distribuito in Italia da MUBI; The African Desperate segna il debutto alla regia di Martine Syms, artista concettuale afroamericana particolarmente interessata a un’indagine sull’identità nera contemporanea tra genere e cultura, attraverso diversi linguaggi artistici come video, performance e scrittura. Elementi che caratterizzano un’opera prima fortemente autobiografica che segue la protagonista Palace nella sua prima giornata da diplomata a un Master in Belle Arti, un limbo sottile tra speranze deluse e nuove prospettive di vita.
Giocato sull’ironia e la critica sociale che contraddistinguono l’opera di Syms, il film si presta a una satira sul mondo dell’arte contemporanea visto come una sorta di alveolo protettivo ed esclusivo per aspiranti creativi un po’ fricchettoni, esaltati da una vita fuori dagli schemi a base di sballi sintetici e la ricerca di una forzata e ostentata alternatività. Quello di Palace diventa così un giro a vuoto, una specie di viaggio alla ricerca di un Io non raggiunto e forse irraggiungibile, motivo di quel disagio che permea il film sin dal titolo.
La figura del “disperato africano” estirpato dal proprio contesto originario e costretto in un altro a lui estraneo che sta alla base della tragedia della schiavitù – le cui conseguenze sono tutt’ora presenti nel nero contemporaneo (il riferimento a Saidiya Hartman non è casuale) – diventa il metaforico specchio della condizione della protagonista, incapace di accettare la morte della madre e il conseguente passaggio a una più adulta responsabilità.
La lunga sequenza del trip durante la festa in onore di Palace è dunque il climax di un tentativo interiore di fuga da una realtà difficile e di non immediata comprensione, a cui la ragazza reagisce rivendicando il diritto all’opacità di Eduard Glissant, la facoltà di “non essere compreso totalmente e non comprendere totalmente l’altro. Ogni esistenza ha un fondo complesso ed oscuro che non può e non deve essere attraversato dai raggi X di una pretesa conoscenza totale. Bisogna vivere con l’altro e amarlo, accettando di non poterlo capire a fondo e di poter essere capiti a fondo da lui”.
Questi riferimenti, lanciati alla commissione valutatrice nella prima sequenza del film, costituisco i due cardini del pensiero della giovane, unica nera in un contesto prevalentemente bianco in cui è ancora più difficile difendere la propria natura espressa attraverso l’atto creativo. Le affermazioni gratuitamente razziste dei docenti sulla presunta eredità africana di Palace sono l’emblema di un atteggiamento che porta inevitabilmente al celamento di sé, alla sua protezione dietro un’immagine altra per lei evidentemente non ancora delineata.
Ma non c’è assoluzione nel finale di Syms, Patrice continua il suo viaggio verso casa, un metaforico ritorno alle origini più idealizzato che concreto, con quell’angoscia che è propria dei grandi cambiamenti e della maturazione che la vita inevitabilmente comporta.