Il giovane businessman Haofeng si trova a Yanji, sul confine con la Corea del Nord, e coglie l’opportunità per staccare dalla sua deprimente vita a Shanghai. Conosce così la guida turistica Nana, anch’essa in fuga dall’entroterra cinese, e il suo indigeno amico Xiao. Si forma una triade di amici/amanti che strizza l’occhio a Jules e Jim, per ammissione del regista stesso, una bolla in cui i tre possono dimenticare temporaneamente le rispettive frustrazioni.
The Breaking Ice è la riconferma della cifra autoriale di Anthony Chen, regista singaporiano habitué di Cannes, nonché un’opera visibilmente ideata durante la pandemia. Il nervosismo dei personaggi è palpabile, esplicitato poco a poco, ma non sfocia in nulla più che innocue ragazzate e opportunità sensuali, poiché la reciproca compagnia non è vista come altro che un palliativo momentaneo a un’incurabile insofferenza esistenziale.
Come per la pioggia del precedente Wet Season, il rigido inverno dello Yanbian fa da eco climatico all’interiorità di personaggi, in cerca di un calore umano in cui tuttavia non possono permettersi di adagiarsi. La remota Yanji è un crocevia di culture, città periferica cinese con radicate tradizioni coreane, un non luogo congelato nell’immobilità che offre opportunità solo a chi è disposto ad abbandonarla.
Per tutto il film i simbolismi si sprecano, su tutti la leggenda della donna orso del monte Changbai, così come gli artifici estetizzanti fini a loro stessi, che però raramente distolgono dal fluire del racconto. Quello di Chen è un cinema apolide popolato da personaggi errabondi, in fuga dal passato o dal presente, che finiscono per incontrarsi e talvolta tornare alla vita.
Da questo punto di vista The Breaking Ice è più esplicitamente speranzoso di Drift, per esempio, nonostante si abbia pur sempre le percezione di assistere a una delicata parentesi, un momento destinato a finire, per poi ricacciare i personaggi al loro inospitale punto di partenza.