The Childhood Experience è la volontà della regista Valentina Olivato, al suo primo lungometraggio documentario, di indagare una scelta di vita forte; raccontare uno scenario, stimolando notevolmente quesiti senza mai assolvere al dovere di rispondere. In un periodo storico come questo, in cui la scuola tradizionale è stata messa in discussione, in cui si cerca di capire che adulti di domani la “scuola da casa” possa generare, la realtà indagata in questo interessante documentario non sembra dopotutto anacronistica. Sono Martino, Vinicio, Miranda e Ines a farci assistere alla loro “esperienza dell’infanzia”, assieme ai genitori Caterina e Alessandro, prendendoci per mano e portandoci dentro il loro mondo. Una famiglia bolognese sui generis, direbbero in molti, che ha scelto l’home schooling e i principi dell’educazione libertaria per strutturare la propria educazione.

Ma che cos’è l’educazione libertaria? È Vinicio a rispondere al fantomatico quesito. Con estrema semplicità e consapevolezza definisce l’educazione libertaria “qualsiasi cosa”.  Può essere studiare materie più tradizionali in casa ma anche sull’albero o, perché no, giocare. Alla base c’è il principio che tutto quello che ti circonda - a partire dalle persone - e che decidi di fare liberamente è uno strumento di conoscenza. Forse lapalissiano, ma al di là di qualsiasi giudizio sulla scelta di educare ed istruire i bambini in questo modo e a casa, quello che emerge dopo settanta minuti in loro compagnia è che tutti e quattro sembrano avere molta consapevolezza di loro stessi all’interno del mondo, una spiccata sensibilità ed una maturità superiore alla media della loro età.

Il documentario non presenta una tesi e il punto di vista, seppur privo di giudizio, è strettamente personale. È quello della regista che, attraverso il rapporto molto intimo instaurato da lei e la sua troupe (cinematograficamente palesato) con i bambini, cerca di cogliere la loro prospettiva, riuscendoci discretamente. Sono molte le scene che rimandano all’idea di una scelta registica da parte dei bambini, di significazione e valorizzazione di alcuni momenti della loro vita, semplici come guardare la chioma di un albero in fiore o più complessi come spiegare la costruzione di un orto. E' un po’ come entrare nella tana del coniglio, alla scoperta di un mondo nuovo e immaginifico. La musica in questo ci è d’aiuto: le note strumentali, spesso del pianoforte, danno il respiro nel ritmo del racconto e ci fanno fluttuare sottolineando un’idea di incanto.

L’andamento delle sequenze è regolato da una divisione in capitoli interessante. Ad essere scandita, in controtendenza all’andamento spesso cronologico della forma documentario, è proprio l’esperienza vissuta da ciascun bambino; ogni capitolo è perciò dedicato ad ognuno di loro, con le sue fragilità, i suoi dubbi e la sua storia. Il montaggio perciò non è lineare ma segue il flusso emotivo della storia raccontata: questa è, così come lo è la coscienza bergsoniana, in continuo svolgimento. Ad essere presentati e in risalto non sono infatti attimi separati ed accostati l’uno all’altro, ma un flusso continuo. Il “collante” è il cassetto della memoria, quella raccontata da Caterina e Alessandro, quella delle immagini di famiglia riproposte all’interno del racconto.

Insomma The Childhood Experience è un’indagine che non permette allo spettatore di astenersi da valutazioni, sotto ogni aspetto. Le tematiche sono universali e le domande che lo spettatore, alla fine della visione, si troverà a dover gestire saranno molte. Un turbinio di interrogativi per una scelta di vita che forse produce anche un po’ di invidia a noi piccoli discenti del passato. Ad intensificare il tutto, il periodo che stiamo vivendo. Che possa esistere una realtà, soprattutto in questo momento, in cui far coesistere la tradizione assieme a questa alternativa?