Chi ha visto Court, il lungometraggio di debutto di Chaitanya Tamhane, ricorderà quanto la musica restasse fiera e salda al centro della narrazione. Ma se in Court la canzone di protesta risultava un pretesto per esplorare le falle del sistema legale indiano, in The Disciple si tenta di tracciare un vero e proprio commento storico sulla musica classica nazionale. Un lavoro decisamente meno cervellotico del precedente, ma non meno ambizioso. Sì, perché The Disciple (ora su Netflix) è un film che esplora tre decadi al suono del sistema indostano, la scuola classica settentrionale, e lo fa con uno stile elegante che permette allo spettatore di entrare in sintonia con temi universali. È la magia del cinema: non servono competenze pregresse per scandagliare l’universo evocato da Tamhane perché non c’è niente di prettamente ignoto nel racconto filmico. Ciò che al mondo occidentale resta oscuro viene svelato con attenzione filologica, ma senza uscire dal binario dell’intuizione. Perché The Disciple non è un film “didattico”, ma un racconto che pulsa di sentimenti familiari.

Al centro di un universo musicale fiero e complesso c’è Sharad, un musicista che vive una tensione passionale tra il suo retaggio tradizionale e il desiderio di successo. Sullo sfondo metropolitano di Mumbai, che incarna pienamente il conflitto tra mondo antico e moderno, ripercorriamo le tappe dell’istruzione di Sharad e del rapporto col padre (suo guru musicale) in un continuo “back-and-forth” temporale. Quello di Sharad è un tentativo disperato di restare fedele alle radici indostane, a una disciplina ferrea che non permette contaminazioni di sorta. Ma la sua è anche una ricerca altrettanto tormentata di approvazione, il viaggio di un’anima contesa tanto dalla remissività pubblica quanto dalle bramosie private.

La musica classica indiana è trasmessa oralmente dal guru e il suo apprendimento si basa su un autentico rapporto di fede. Non fiducia, fede. Ed è fede quella che richiede un guru al suo discepolo, fede cieca quella che Sharad prova nei confronti del padre. La dedizione, tuttavia, sembra non bastare. Il credo viene minato dal mondo esterno, sempre meno interessato alle rigidità del sistema indostano, ma anche dal guru stesso, pronto a scaricare le proprie insoddisfazioni sul figlio. La frustrazione matura in un crescendo silenzioso mentre Tamhane offre allo spettatore una postazione privilegiata per coglierne le sfumature.

Sono le inquadrature fisse, dense di dialoghi e vocalizzi, a sciogliere storicamente i nodi dell’insoddisfazione. Per contrasto, sono le riprese in slow-motion degli spostamenti in moto di Sharad — quelle in cui riascolta i nastri digitalizzati di Maai, guru del padre — a evidenziare il suo attaccamento ostinato a un mondo che, se non sta definitivamente svanendo, di sicuro è costretto a mutare. I nomi degli esponenti più illustri del sistema indostano non sono nel database delle biblioteche, i raga non vengono eseguiti con la stessa disciplina dai musicisti di successo e l’interesse musicale del popolo indiano si sposta progressivamente verso programmi di matrice occidentale, come le tante declinazioni di X-Factor. Anche gli allievi di Sharad sembrano indisposti a legarsi a lui tramite quel rapporto di devozione necessario a conservare i semi spirituali della tradizione, mentre le sue eredità intoccabili vacillano sul filo della prospettiva.

Seppur appesantito dal ritmo cadenzato e ipnotico che rappresenta, The Disciple diventa un tentativo di celebrare un mondo austero e misterioso e di mostrarne i fisiologici tentativi di smantellamento. L’interpretazione di Aditya Modak — musicista prima che attore — contribuisce a costruire un rapporto coerente tra rievocazione e finzione, ma è l’interesse per i temi sociali di Tamhane a rendere il film un ponte tra passato e presente, un progetto di ricerca che tenta di ricongiungersi con l’emotività nascosta tra le pieghe del rigore.