Il 2 ottobre 2018 Jamal Khashoggi entra nel consolato dell'Arabia Saudita a Istanbul per richiedere dei documenti per sposarsi, con la futura moglie che lo aspetta fuori, e non ne esce più vivo. È un giornalista, a lungo parte dell'intellighenzia del paese, ma ormai da più di un anno auto-esiliatosi all'estero per cautela, dopo aver criticato a più riprese il governo del re Salman e dei suoi figli. Non è un rivoluzionario, Khashoggi, ma un riformista e un dissidente riluttante, che ora scrive su testate autorevoli come The Washington Post. È dunque, inserito nel mondo occidentale, una potenziale “scatola nera” dei meccanismi in atto all'interno del regime saudita, a sua volta intento a fare affari sulla scena internazionale promuovendosi come progressista, con iniziative edificanti come il progetto Vision 2030, o la storica autorizzazione per le donne a guidare l'automobile.

Bryan Fogel, già vincitore dell'Oscar per Icarus, in cui denunciava il sistema russo del doping di stato, costruisce con The Dissident un documentario potente, che utilizza i fondamentali della retorica – umanizzazione dell'eroe, costruzione dell'empatia verso chi resta e lotta contro l'ingiustizia – ma non vuole eccedere nei sentimentalismi. Il suo discorso usa l'emotività come uno strumento e non come un fine, per coinvolgere lo spettatore e dirigerlo verso considerazioni socio-politiche più estese del singolo caso saudita, dall'atteggiamento degli stati sovrani verso le potenze economiche con cui intrattengono relazioni (sullo schermo vediamo le minimizzazioni di Donald Trump, ma analoghe polemiche il documentario ha rinverdito da noi verso Matteo Renzi), alle conseguenze del controllo mediatico sulla comunità internazionale.

Proprio nella messa in scena dei passaggi mediatici Fogel mostra le migliori frecce al proprio arco: oceani sterminati di messaggi e tweet, dall'appeal spettacolare in sé pressoché nullo, vengono selezionati, assemblati e resi graficamente in CGI con una perizia suggestiva da war games: le guerre contemporanee si fanno a colpi di hashtag, col vincitore in cima ai trending topic, fra le “mosche” incaricate di presidiare la rete dal governo saudita e le “api” dissenzienti, spesso fuggite dal loro paese d'origine ma braccate e con i parenti in carcere al posto loro. La pubblica opinione generale non si forgia però tanto con la repressione, quanto piuttosto riuscendo a dettare l'agenda delle notizie di rilievo sui social; le idee non si impongono con gli eserciti, ma con squadre di hacker esperti, incaricati di stroncare ogni tweet avverso in una pioggia di commenti ostili o maldicenti.

Fogel suggerisce che c'è una lotta sotterranea per la democrazia che non si gioca più sul piano nazionale ma mondiale, e che nel mondo occidentale non è più definita dalle ideologie identitarie ma da interessi economici e di parte. The Dissident ha fatto a lungo fatica a trovare distributori fra i grandi gruppi, ovviamente big player del mercato globale.