C’è una sequenza nel precedente film di Joanna Hogg, The Souvenir: Part II – secondo capitolo della coppia di lavori autobiografici, ancora inediti in Italia, che hanno coronato la sua carriera tanto da farla approdare oggi in concorso alla Mostra del Cinema di Venezia – che bene descrive il suo cinema gentile e sfuggente. Quando la giovane protagonista-regista inizia a lavorare al suo primo film c’è un membro della troupe che inizia a lamentarsi. In una lunga sequenza di discussione tra lui e stretti “collaboratori” della ragazza, lei rimane in silenzio ad ascoltare e a subire.

Il fulcro della questione è la difficoltà di seguire il processo di lavoro, sono giorni che stanno girando le stesse scene, sembra di lavorare a vuoto, senza un fine, senza un progetto, senza un programma. Questa percezione intercetta perfettamente, tra le altre cose, l’approccio spettatoriale per questo suo cinema a-programmatico, timido, a basso impatto spettacolare. E la conseguente reazione altrettanto.

Perché la Hogg è maniacale (non scende facilmente a patti) e in The Eternal Daughter i ritorni di questo suo cinema sono tanti, quasi troppi, ma precisi. I toni autobiografici non mancano, la storia è quella di una regista e del suo rapporto con la madre. Le due passano qualche giorno in un hotel che un tempo era la magione di famiglia – alla ricerca di ricordi per una storia che sembra coinvolgere emotivamente più la figlia che altri – la donna è tormentata dalla volontà di appagare la madre e da un misterioso clima lugubre che trasuda dalle pareti di uno scricchiolante albergo vuoto. Il tormento, da subito, si concretizza in misteriosi rumori notturni (quasi come Memoria di Apichatpong Weerasethakul). La donna non dorme, cerca le origini dei suoni e compie una serie di movimenti rituali alla ricerca di qualcos’altro: un ricordo? un mistero? un volto?

Se la protagonista non riesce a trovare una chiave di lettura per interpretare la storia del rapporto con la madre, Joanna Hogg di certo l’ha trovata: il rapporto borghese madre-figlia come storia di fantasmi. In questo il titolo è programmatico (e, magari, anche prevedibile). Ma la Hogg si affida ad un apparato concettuale che immerge la storia in un clima luttuoso e minimalista in cui il rapporto madre e figlia può essere qualcosa di più.

È intimo ed esclusivo, meta-cinematografico (entrambi i personaggi sono interpretati da Tilda Swinton, il che le serve lo spazio per una grande performance) e non (la natura privata è reiterata dalla solitudine e dall’esplorazione delle memorie), soprattutto è un rapporto motivato cinematograficamente: le due non compaiono quasi mai nella stessa inquadratura grazie a una scelta che affida agli stacchi di montaggio il loro legame (è ancora una questione di cinema). E su questi costruisce tutto il mistero del film.

Rimane il contesto borghese di provenienza, sempre padrone delle immagini della Hogg. In The Eternal Daughter è origine di una maniacalità di fondo, una rigidità dei gesti, una ritualità delle azioni, una ossessione per gli oggetti e per l’ordine (è un hotel vuoto e inefficiente il vero horror per la borghesia di oggi?). Ossessione che sembra descrivere anche il lavoro di rielaborazione del suo cinema – silenzioso più che urlato, tiepido più che urticante, sbiadito più che abbagliante, trascinato più che trascinante e sempre alla continua ricerca di qualcosa nell’altro e nell’altrove – che, inoltre, riesce a rinnovarsi servendo un film dalla tensione crescente e mai scaricata. Un’attesa infinita. E uno svelamento leggero. Gentile.

Come l’idea in fondo a questo film (che disinnesca una premessa che chiamava a tutt’altro). Piccolo e maniacale. Sfuggente e ostile. Minuscolo attorno a giganti, ma più grande di quanto si pensi.