Si inizia con Kierkegaard: “La vita va compresa all’indietro ma va vissuta in avanti”. Una dichiarazione d’intenti, una missione narrativa. La regista Beatrice Segolini è stata concepita dopo la scomparsa della sorellina Annapaola. Ha due fratelli più grandi, Michele e Stefano, e gli home movie ci danno conto dei loro successi nel basket. Ma prima di vederli in carne ed ossa li conosciamo sotto forma di pupazzetti: nel teatrino familiare che apre il documentario, sono interpretati da due animali da fattoria che giocano con una bambolina, controfigura di Bea(trice). La mia famiglia ed altri animali: e, infatti, due dinosauri recitano la parte dei genitori. La mamma ha un abitino rosa; il padre è più grande e feroce. È l’unico momento in cui assistiamo al cuore del racconto: solo così il peso di un passato segnato dalla violenza può trovare rappresentazione.
Una riflessione sul filmare e sul filmabile: se il passato non è filmabile, in che modo affrontarlo e ripensarlo? Con quali intenzioni capire il presente che si vuole filmare? Di modi ed intenzioni, The Good Intentions parla sin dal titolo: “non contano i modi ma le intenzioni” continua a ripetere la madre, che difende accanitamente il padre dei suoi figli. Se Stefano è cosciente di aver ereditato il bene e il male dal padre e Michele si misura quotidianamente con la necessità del perdono, a Beatrice interessa la comprensione di un lessico familiare che i suoi parenti provano a mitigare o dimenticare. Quando il padre appare, ci accorgiamo di quanto questo confronto intimo e drammatico abbia bisogno dello sguardo altro di Maximilian Schlehuber (accreditato come co-regista).
È lui ad irrompere nella dialettica padre-figlia con un tatto di che denota la cognizione del grande problema dei Segolini: l’incapacità di trovare le parole giuste per spiegare il dolore. Lo sa anche il padre, inafferrabile e sfuggente (“più che una guida era una minaccia” dice la figlia), che confessa il desiderio impossibile di voler fare tutto diversamente, ma non è in grado di liberarsi del flagello dell’errore: “le parole finiscono, conta l’essenza” sentenzia e scompare dietro una porta nella sua stalla. Beatrice sa che nessuno vuole (far parte di) questo documentario; ma sa che le lacrime possono far crescere un nuovo rapporto. Sa che The Good Intentions può essere l’occasione per rielaborare ed espiare le diverse declinazioni del senso di colpa, per fare pace con “quanto è andato perso” tra le pieghe dei ricordi registrati.