Uscito ufficialmente nelle sale italiane quattro giorni fa (ma al cinema Lumière è possibile visionarlo nella speciale proiezione in 70 mm in lingua originale sottotitolata fino a mercoledì 17 febbraio), Cinefilia Ritrovata torna sul nuovo film di Quentin Tarantino. A seguire due nuove recensioni dai nostri collaboratori.
Wyoming, 1865. Una diligenza sfida la furia dell’inverno per portare a Red Rock il cacciatore di taglie John Ruth e la sua prigioniera, Daisy Domergue. Dopo aver caricato di malavoglia il bounty hunter afroamericano Marquis Warren e lo sceriffo Chris Mannix, la spedizione cerca rifugio dalla tempesta in una locanda popolata da quattro sconosciuti. Sarà l’inizio di una notte sanguinosa, in cui le identità degli otto verranno messe in discussione e tutti troveranno la giusta espiazione per i loro peccati.
Sin dai tempi di Jackie Brown il pregio maggiore di Quentin Tarantino risiede nella sua capacità di entusiasmare gli spettatori violando totalmente le loro aspettative ad ogni nuovo film. Amante dei generi ma ostinato a non rimanerci dentro, il regista statunitense ci sorprende per l’ennesima volta con The Hateful Eight, opus numero otto della sua carriera che porta alle estreme conseguenze le modalità di narrazione già mostrate in Bastardi senza gloria e Django Unchained: prendere un genere ben definito, come in questo caso il western e il giallo da camera, e ridurlo a cornice di una parabola sul legno storto dell’umanità e sulle insanabili contraddizioni degli Stati Uniti d’America.
Cinico e “politico” più dei suoi predecessori, The Hateful Eight gira il coltello nella piaga della Guerra civile e si interroga sul suo lascito. Il clima di paranoia e disprezzo successivo al conflitto, secondo Tarantino, non è destinato a ridursi ma piuttosto a ingigantirsi fino a costituire le basi dell’America odierna. Gli otto protagonisti rappresentano, a loro modo, gli archetipi del mito del vecchio West, e fanno di tutto per comportarsi come tali, ma dietro ai loro discorsi sul valore della giustizia e delle leggi si nasconde un rancore cieco, motivato da cupe motivazioni personali e destinato ad esplodere con la rapidità di un colpo di pistola.
Seguendo la lezione del suo nume tutelare Sergio Leone, Tarantino costruisce la prima parte del film dilatando il tempo del racconto e giocando con la pazienza dello spettatore fino al punto limite; per poi lasciare spazio a un’esplosiva seconda parte dallo stile più riconoscibile, in cui il ritmo viene dettato da sprazzi di violenza, frammentazioni temporali e continui cambi di punti di vista, in uno schema che ricorda da vicino il gioco al massacro dell’opera prima del regista, Le iene.
Tra i vari omaggi cinefili di cui il film è disseminato, il più caloroso è riservato a La cosa, fanta-horror paranoide firmato John Carpenter, di cui il regista recupera non solo l’atmosfera ma anche l’attore protagonista, Kurt Russell, e le musiche di Ennio Morricone, qui anche autore della colonna sonora originale.
Ed è proprio a Russell che Tarantino decide di affidare la parte del livoroso ma vulnerabile John Ruth, uno dei personaggi meglio riusciti del film, affiancato egregiamente da un cast in cui spiccano Samuel L. Jackson in un ruolo tarantiniano fino al midollo e uno stralunato Walton Goggins nei panni dell’uomo di legge combattuto tra senso del dovere e odio razziale. Su questi personaggi, così diversi e al tempo stesso distanti, il regista decide di soffermarsi nel finale più ambiguo della sua filmografia, in cui il sogno di una riconciliazione tra gli uomini convive con il trionfo della loro brutalità.
The Hateful Eight è l’ennesima lettera d’amore per il cinema di un regista, ormai assurto al rango di Maestro, che riesce sempre a rinnovarsi rimanendo uguale a se stesso, grazie a un’opera maestosa in perfetto equilibrio tra riflessione e intrattenimento, innovazione e cinefilia.
Francesco Cacciatore
ATTENZIONE: LA SEGUENTE RECENSIONE CONTIENE SPOILER
Quentin Tarantino torna nelle sale con la sua ottava fatica, elettrizzando il pubblico e scuotendo la critica dal torpore invernale. Vero e proprio film evento, grazie anche alla limitatissima distribuzione in 70 mm, la sua uscita provoca una slavina di recensioni: giornalisti, blogger e youtuber escono dal letargo e si affannano ad affollare il web con le loro opinioni. Anche chi si era assopito tra i paesaggi boreali di Revenant – Redivivo trova il tempo di riscuotersi e dire la sua.
Come puntualmente accade per le pellicole del cineasta americano, contraddistinte da uno spiccato gusto per la citazione e il pastiche, i recensori si lanciano con entusiasmo nella ricerca di fonti e generi di riferimento, citando via via il western per l’ambientazione, l’horror per la trasformazione di Jennifer Jason Leigh in una ringhiante Baba Yaga, e il giallo per l’atmosfera di sospetto che permea buona parte della pellicola. Se le prime due filiazioni appaiono legittime, la terza si rivela soltanto superficiale: di Agatha Christie, The Hateful Eight ha solo la scorza. Uno sguardo più attento alla vicenda mostra come la suspense montata dai primi tre capitoli sfoci in un “thriller dell’ovvietà”, dove la retorica investigativa è soltanto un espediente per mantenere lo spettatore ostaggio della tensione.
Nella parte iniziale, il film ci presenta le otto canaglie rimaste bloccate dalla bufera in un emporio. Ciascun personaggio, come in ogni giallo che si rispetti, ci fa intravedere dei lati oscuri, un interno che potrebbe rivelarsi opposto all’esterno di cui lo spettatore è immediatamente partecipe. Così Kurt Russell non ci spiega mai con precisione di quali crimini si è macchiata la sua prigioniera, Walton Goggins non ha prove per convincerci di essere davvero il futuro sceriffo di Red Rock e Demián Bichir sembra da subito un bugiardo non troppo convinto. L’avvelenamento del caffè sancisce l’apertura delle indagini, con Samuel L. Jackson nella parte dell’ispettore capo: nella stanza c’è almeno un colpevole, e sta a lui stanarlo. Giunti a questo punto, in un qualsiasi racconto di Poirot, l’assassino verrebbe rivelato con un plateale colpo di scena, smascherando le macchinazioni del più insospettabile tra gli astanti: il criminale non sarebbe il figlio della vittima, accanito frequentatore di compagnie poco raccomandabili, ma il candido maggiordomo. In The Hateful Eight accade l’esatto contrario.
I tre figuri poco raccomandabili sono realmente tre fuorilegge, Russell è realmente un cacciatore di taglie e la Leigh una pericolosissima omicida. L’indagine di Jackson è destinata a concludersi con successo nell’esatto momento in cui ha inizio, con i colpevoli già allineati contro il muro e l’unico alleato possibile, il pavido Goggins, a recitare la parte dell’appuntato goffo e non troppo brillante. La sorpresa che coglie lo spettatore quando Channing Tatum fa fuoco sull’incredulo Jackson è poi frutto di una gravissima violazione delle regole base della detective story classica: lasciar infrangere la cornice ben cesellata del caso da un elemento esterno, che gioca un ruolo centrale nella sua risoluzione.
In questo sanguinolento dramma da camera le prime impressioni risultano quasi sempre esatte e le parole passano in secondo piano. Ai fini della narrazione, che Jackson abbia realmente torturato il figlio di Bruce Dern, o che a Red Rock la popolazione locale stia davvero aspettando Goggins nelle vesti di nuovo sceriffo, è del tutto indifferente. Tutto ciò che serve ai personaggi è ben chiaro davanti ai loro occhi, e l’inaspettato si annida lontano dalla vista, dietro le spalle o sotto le assi del pavimento. Qualsiasi analogia con la letteratura del mistero si rivela così unicamente esteriore e il giallo resta una sfumatura secondaria di questo grande affresco in cui trionfano il castagno della locanda, il bianco della neve e il rosso del sangue.
Gregorio Zanacchi Nuti