In proiezione in questi giorni al cinema Lumière, The Hateful Eight segna il grande ritorno di Quentin Tarantino dietro la macchina da presa. Il regista statunitense ha voluto girare il suo ottavo film su pellicola 65 mm e proiettarlo in 70 per soddisfare una serie di personali desideri artistici. Due collaboratori di Cinefilia Ritrovata lo hanno visto, a seguire le loro considerazioni.

Un Cristo di legno inchiodato alla sua croce emerge fra le distese innevate del Wyoming: sulle spalle, oltre il peso delle colpe di tutti gli uomini, porta anche quello della neve che cade incessante. Con una carrellata all’indietro il Cristo si allontana mentre in direzione opposta avanza una diligenza. Con questa bellissima scena si aprono le danze di The Hateful Eight, l’ottavo e ultimo – in ordine d’arrivo – film di Quentin Tarantino.

All’interno della diligenza troviamo il cacciatore di taglie John Ruth e la ricercata Daisy Domergue che si stanno dirigendo a Red Rock dove la donna verrà giustiziata. Durante il tragitto a loro si uniscono il maggiore Marquis Warren e il nuovo sceriffo della città: Chris Mannix. Sorpresi da una tempesta di neve i quattro son costretti a rifugiarsi in una locanda dove incontrano il gestore del locale Bob, il boia Oswaldo Mobray, il cowboy Joe Gage e il vecchio generale Sanford Smithers. Ogni personaggio nasconde un segreto, niente è quello che sembra e l’unica cosa che unisce il gruppo è il sospetto e l’odio reciproco.

Ricco e spumeggiante il cast, sul quale spiccano le splendide interpretazioni di Kurt Russell, cacciatore di taglie dalla vulnerabile credulità, Samuel L. Jackson, ex soldato di colore con una lettera al posto del cuore, Michael Madsen, cowboy mammone dalla voce cartavetrata e Jennifer Jason Leigh, bandita picchiata a morte ma indomita.

La prima parte del film, molto parlata e con poca azione, si svolge quasi come una pièce teatrale, con atmosfere che ricordano da vicino Agatha Christie. Dialoghi serrati, affilati e ben congegnati seminano indizi su trappole mortali in attesa di scattare. Il gergo è quello diretto e sboccato e i temi – razzismo, maschilismo, vecchiaia e morte – sono quelli tabù, trattati in modo politicamente scorretto, nel più consolidato stile di Tarantino. La vivacità della materia è resa perfettamente dalla splendida fotografia di Robert Richardson che ha utilizzato lenti anamorfiche Panavision: a parte i paesaggi mozzafiato in apertura, sono soprattutto i volti che vengono ripresi in primo piano e studiati come mappe di orientamento alla guida dei personaggi: barbe incolte, cicatrici, occhi tumefatti. L’uso della luce è particolarissimo: spesso cade in un fascio generato dall’alto o di fianco – il tettuccio della diligenza, le finestre della locanda – creando un forte effetto caravaggesco.

La seconda parte è invece quella più marcatamente western e tarantiniana, in cui i segreti vengono svelati e le vendette incrociate si consumano: si inizia dal padre costretto ad ascoltare il racconto della tortura e della morte del proprio figlio con il sottofondo di Silent Night fino ad arrivare alle sparatorie in rallenti. Copiosi schizzi di sangue cominciano ad imbrattare la scena, brandelli di cervelli spappolati si mescolano a capelli, in uno splatter che sconfina nell’horror.

Alto, basso, popolare e colto, Tarantino mescola continuamente le carte regalandoci un giocattolo che cambia forma e colore, divertente e magico come un caleidoscopio che non vorresti mai smettere di guardare. Molto criticato – come al solito – per l’eccessiva violenza e l’uso di termini offensivi (ma il loro uso massiccio e ripetuto ne svuota il significato originario per riempirlo di ironia) questo film è uno dei migliori di Tarantino: ci rapisce per tre ore e ci porta a spasso nel suo mondo, divertendoci, spaventandoci e gettando semi di riflessione. Continuamente scandito – oltre che dalla magnifica colonna sonora di Ennio Morricone – da chiodi piantati nel legno, paletti conficcati nella neve, coltelli affondati nella carne, The Hateful Eight sembra quasi voler inchiodare la nostra attenzione a qualcosa che ci sfugge: forse alla sofferenza che ci accomuna o al guizzo d’odio nascosto in ognuno di noi.

Poter vedere inoltre questo film in pellicola è una vera festa, per gli occhi e per il cuore. La versione in 70 mm (che offre alta qualità visiva e circa 15 minuti in più rispetto a quella digitale, con la magnifica overture di Morricone – solenne e paurosa insieme – e un breve intermezzo) riesce a onorare la tradizione del girato in pellicola, ma anche a riproporre un rito fatto di piccoli momenti che celebrano e alimentano la passione per il cinema.

Lorenza Govoni

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Sembra ieri il 2003-2004, quando Quentin Tarantino passò dall’essere il regista di culto che ama la nouvelle vague pur non rinunciando al pop, alla venerazione da parte di tutti, dai cresciuti a pane e blockbuster agli amanti della nicchia, grazie a Kill Bill. Se da una parte le lodi erano strameritate, dall’altra si respirava un’aria indigesta, quella dell’impossibilità di pareri divergenti tanto era sentita l’esaltazione per questo “nuovo Kubrick” con tanti punti esclamativi a corredo – sorte che abbiamo puntualmente riservato anni dopo anche a Christopher Nolan nel periodo post sbronza per Il cavaliere oscuro. Non si poteva parlare di cinema senza parlare di lui. E dopo ulteriore potenziamento della fanbase, prima per quel fenomeno di culto che è Sin City di Robert Rodriguez (del quale girò una sequenza) e poi per il giocoso film collettivo Grindhouse – A prova di morte (tutti abbiamo almeno un amico che ne possiede la locandina in cameretta), se nel 2009 qualcuno manifestava perplessità per come Tarantino riscrive la Storia in Bastardi senza gloria, si finiva sempre con lo studente del DAMS con tanto di maglietta di Antropophagus che uccideva il dibattito al grido di «Se non ti è piaciuto vuol dire che non capisci il postmoderno!».

Poi cosa accadde? Accadde che Tarantino volle entrare nel secondo decennio con un film accolto tutto sommato tiepidamente dai suoi fan, quel Django Unchained del 2012 che apparve ai loro occhi ripetitivo e troppo esagerato, soprattutto nel finale. Ora, con questo The Hateful Eight, ha fatto ciò che pochi registi giunti ad una simile presenza sulla bocca di tutti hanno il coraggio di fare: si è spogliato degli abiti che gli ammiratori della seconda ora gli stavano cucendo addosso da anni. Nel narrare la vicenda di otto personaggi in cerca di giustizia – quella stessa, ambigua giustizia che ricade sui chiodi del Cristo ricoperto di neve che apre il film –, improbabili coinquilini per un paio di giorni in una baita in mezzo alla bufera delle montagne del Wyoming, The Hateful Eight si libera dei colori accesi di Kill Bill e Django Unchained, non dà a Christoph Waltz un memorabile terzo ruolo tarantiniano da Oscar dopo Landa e il dott. Schultz, mette da parte le grandi ambizioni sfrontate come il voler dare alla Storia un finale alternativo e soprattutto non catapulta lo spettatore in un vortice citazionistico kitsch facilmente riconoscibile. Se togliamo tutto questo, cosa rimane? La grande passione di Tarantino: raccontare storie.

Dramma da camera che incontra lo spaghetti western in un processo di sottrazione che riduce entrambi all’osso, The Hateful Eight è uno scheletro che cammina lentamente e colma con quel poco che possiede il “bianco” nulla in cui è immerso. Vera e propria “lettera d’amore” nei confronti della lettera: il rincorrersi verboso degli aneddoti per bocca dei personaggi, ognuno con qualcosa da raccontare, una farsa da mettere in scena, un ruolo da interpretare, fa del film un trattato sullo storytelling, sulla potenza evocativa e retorica del narrare. Se per Tarantino il cinema è sempre stato un gioco nel senso più ludico che la parola suggerisce, con The Hateful Eight emerge ancor più che in passato la sfumatura beffarda del concetto: il cinema è scherzo pirotecnico, bugia spettacolare, menzogna ben recitata. Non solo si racconta di bugiardi, ma è il film stesso a prenderci in giro mostrando, in una seconda parte di tensione in crescendo che guarda a Hitchcock, ciò che nascondeva il già narrato.

Tarantino, parafrasando Bernardo di Chartres, è come un nano sulle spalle di giganti. Da sempre desiderava fare un film che sembrasse uscito dal cinema che lo ha cresciuto. Come non sorridere, dunque, vedendo che ci è finalmente riuscito? Girato in quei gloriosi 70 mm sui quali ha visto tutto il cinema dei suoi maestri, musicato con tracce originali da quell’Ennio Morricone che lo fece sognare tra i cactus di Sergio Leone, con quella divisione in capitoli con tanto di overture e intermission, l’immagine che trema, i rumori di raccordo tra una sequenza e l’altra della pellicola che ricordano la puntina del giradischi sul vinile.

The Hateful Eight è l’omaggio definitivo di Tarantino a tutto ciò che ama, dai b-movie anni Settanta al cinema d’autore europeo, dal western americano allo splatter trash, dalle avventure orientali ai cartoni animati. Ma lo è proponendo un ritorno alle origini del suo stile accompagnato da una sempre più solida convinzione di quali siano le nuove strade da battere.

In barba a tutti i fan sfegatati che dopo Django Unchained lo davano per condannato a ripetersi maldestramente.

Brando Sorbini