La famiglia Blake sta trascorrendo il giorno del ringraziamento in una grande casa buia, fredda e malconcia, dove il telefono non prende e risuonano i passi dei vicini. È la nuova casa della figlia Brigid, appena trasferitasi da Scraton a New York per vivere con il suo compagno Rich e continuare a cercare lavoro nel mondo della musica. I suoi genitori, Deirdre ed Erik, sua sorella Aimee e la nonna Momo hanno quindi deciso di festeggiare a casa loro, per quanto lo spazio sia spoglio e umido.

Dovrebbe essere il calore familiare a riscaldare questo ambiente, ma è subito evidente quanto sia fragile l’equilibrio del benessere di questo piccolo gruppo di esseri umani, che vogliono disperatamente stare insieme nonostante il reticolo di ansie, rancori e sofferenze che li legano. A poco a poco le apparenze crollano, o meglio cedono e si rafforzano a intermittenza nel tentativo di continuare a preservare una parvenza di normale convivialità.

È una storia molto comune, poiché tutti noi possiamo dire di vivere grandi o piccoli contrasti con gli umani che ci sono capitati come parenti. Siamo costretti a stare insieme, come suggeriscono i ripetuti claustrofobici piani totali in cui i membri della famiglia Blake sono schiacciati gli uni agli altri: i corridoi sono troppo stretti, i soffitti troppo bassi, i suoni passano attraverso le pareti e, in aggiunta, il regista utilizza con perizia la tecnica resa famosa da Wong Kar-wai, lo slit staging, che consiste nell’includere nell’inquadratura muri, porte ed altri elementi che che sezionano e restringono ulteriormente lo spazio disponibile.

È molto chiaro l’intento programmatico con cui il regista Stephen Karam, già autore e regista dell’omonimo spettacolo teatrale, compone la versione cinematografica di The Humans (distribuito da MUBI). Accanto infatti all’insistito uso dello slit staging, Karam appone numerosi dettagli: alterna primissimi piani a dettagli di oggetti e della casa, chiazze, macchie, rigonfiamenti, con una grande attenzione per le texture e per i contrasti di luce che questi creano. Si vuole convogliare lo sguardo attento dello spettatore a percepire la sensazione tattile data da questi elementi, la loro dimensione multisensoriale, così che ci sembri di essere anche noi all’interno della casa a spiare da dietro un angolo i discorsi della famiglia Blake.

Questa sensazione è amplificata anche dal tipo di movimenti di macchina, carrelli a stringere intorno alle figure riunite o carrelli a seguire i personaggi in movimento nella casa. Noi spettatori siamo però spie sovraumane: in più momenti lo sguardo della macchina da presa passa fuori dalla casa, osservando da un’impossibile punto di vista da dietro le finestre, dalla strada o addirittura dallo spazio, creando un paradosso tra la vicinanza alle vicende di queste persone e la contestualizzazione di questo episodio in un mondo più vasto, animato da milioni di altre storie diverse, ma in fondo uguali.

La labirintica casa vuota e sporca diventa una metafora del confronto familiare, che può avvenire solo quando si eliminano le sovrastrutture fatte di aspettative e negazioni, in un luogo dove sia impossibile nascondersi. Ma potrebbe anche suggerirci l’idea di un sotterraneo buio in cui rischiamo di relegare le nostre relazioni più intime in un tombale quieto vivere. A noi la scelta.