Considerando la filmografia di Terrence Malick come un discorso ininterrotto nel suo costante e ossessivo interrogarsi, mai è stato tanto netto un elemento dialettico come quello che congiunge l’inquadratura finale de La sottile linea rossa all’incipit di The New World (film di cui torniamo oggi a parlare a 15 anni dalla sua uscita). Abbandonati i soldati filosofi di Guadalcanal ad un destino incerto tra una battaglia e un’altra, Malick conclude il film con l’inquadratura di un germoglio che cresce sul bagnasciuga, zona liminale tra la terra e l’acqua. Luogo simbolico, soglia tra elementi che si toccano, oltre che rappresentazione utopica dell’impossibile in atto.

Se polemos è padre di tutte le cose e la conflittualità intrinseca nella natura e nell’uomo è la forza che muove il mondo, la possibilità del germogliare di un nuovo elemento, di nuove possibilità, si insinua costantemente nel cammino della storia, sembra suggerirci Malick. In tal senso il finale de La sottile linea rossa è significativo perché, come scrive S. Emiliani (Filmcritica): “L’acqua […] è […] set che si alimenta di successive ri – generazioni e ri – creazioni. Non è un caso che proprio nella nascita, nel parto, l’acqua sia elemento fondativo”.

Ed è infatti dall’acqua che su richiamo della protagonista sorgono i nativi americani nelle prime scene di The New World per narrarci la storia della loro terra. La sua appare quasi un’invocazione dal presente al passato che si ricrea di fronte ai nostri occhi come una sorta di monito. Abbandonate le isole del Pacifico, il fluire della narrazione ci porta quindi sulle rive di un nuovo mondo, che ci viene mostrato tramite lo sguardo dei primi coloni in tutto il suo florido e apparentemente illimitato potenziale. Sarà luogo di rinascita, terra dell’abbondanza dove gli uomini disposti a lavorare duramente potranno prosperare, ci dice Smith nei suoi monologhi interiori. Ma dai primi minuti del film osserviamo l’embrione di quella che non sarà affatto una rinascita quanto una programmatica conquista. I coloni, figli della mentalità calvinista dalla quale provengono, non perdono tempo a godere della bellezza della natura, ma cercano l’oro e costruiscono fortini armati per difendersi dall’ignoto che incombe al di fuori dell’avamposto.

L’etnocentrismo occidentale è mostrato fin dai primi incontri tra i coloni e i nativi, che vengono inizialmente descritti da Smith con bonaria supponenza come dei “cerbiatti timidi e curiosi”. A tale insormontabile incomunicabilità tra culture, Malick contrappone il racconto (o piuttosto la leggenda, con scarse basi storiche) dell’amore tra Pocahontas e Smith, che diviene metafora di ciò che sarebbe potuto avvenire e non è avvenuto, ossia una coesistenza pacifica e un reciproco accrescimento. Scrive il critico Adrian Martin di come la filmografia di Malick sia costellata da personaggi tragici perchè falliscono all’esperienza dell’amore, inteso dal regista texano non come un’intossicazione passeggera ma nel suo potenziale utopico e trasformativo del mondo. In tal senso il patto amoroso tra Smith e Pocahontas è un atto di fede nella capacità umana di un radicale cambiamento, e il suo tradimento da parte di Smith è agito in favore di una fiducia cieca nei confronti della scoperta, del progresso, che Malick vede benjaminamente come un inesorabile percorso verso morte e rovine. Adrian Martin prosegue sottolineando l’oscillazione costante nell’arco del film del personaggio di Smith che di volta in volta parla della vita nella comunità nativa come di un sogno che può trasformarsi in realtà, o all’opposto, dell’impossibilità di tale sovvertimento. Tale oscillazione ci porta fino alle ultime scene del film e a quello che viene descritto come un dialogo immensamente triste, durante il quale Smith capisce di aver fallito la propria esistenza, rinnegando quello che tramite Heidegger potremmo definire “il vero e autentico sé” e di aver “superato le Indie” che stava cercando.

Rispecchiando tale percorso di sconfitta, assistiamo alla malinconica passeggiata di un nativo americano tra gli alberi potati e resi figure geometriche del giardino reale in Inghilterra, e osserviamo il suo incedere incredulo in quell’universo alieno come un’immagine profetica della razionalizzazione tecnocratica pronta a raggiungere e a piegare a sua immagine anche il nuovo continente. Malick si ferma agli albori di quello che sappiamo sarà un genocidio, e dopo l’operazione mastodontica di The Tree of Life il suo linguaggio si atomizza in racconti minimi e intimisti, quasi accettando l’impossibilità di concepire un discorso storiografico in uno scenario come quello contemporaneo. Ma The New World non è solo un racconto di perdita e sconfitta, e tramite il personaggio di Pocahontas, che come altri personaggi malickiani ci mostra  una tenace e incrollabile fedeltà alle proprie istanze interiori, il regista texano prosegue il suo percorso da inesausto idealista, continuando a mostrarci il potenziale umano.