Old Oak, il 27esimo lungometraggio di Ken Loach presentato in concorso al festival di Cannes 2023, è presumibilmente l’ultimo atto della lunga e pluripremiata carriera di un cineasta militante,  capace di coniugare la lezione del Free cinema inglese e della scuola documentaristica di J. Grierson per rappresentare i principali problemi dell’Inghilterra contemporanea, dai diritti civili allo sfruttamento delle minoranze; il film, senza essere un capolavoro,  conferma l’indomito impegno politico e sociale di Loach e fa parte di una trilogia di film ambientati nella desolazione economica del nord-est dell’Inghilterra, insieme a I, Daniel Blake (Palma d’oro nel 2016), e Sorry We Missed You (2019).

Durham, anno 2016: un ex villaggio di minatori, un tempo protetto da un sindacato forte e solidale, si è trasformato in una comunità ferita dalla chiusura delle miniere di carbone negli anni '80, che da allora ha subito un inesorabile e doloroso declino; l’arrivo di diverse famiglie di rifugiati siriani è la miccia che fa esplodere proteste ed aggressioni xenofobe degli abitanti. Le vicende ruotano intorno al fatiscente pub di TJ Ballantyne (Dave Turner), l'Old Oak, dove una manciata di clienti abituali vomita amarezza e livore mentre cerca di sbarcare il lunario. Un pub è un luogo d’incontro, ma in fondo è lì che si vedono meglio i conflitti.  

Il proprietario TJ stringe amicizia con Yara (Ebla Mari), una giovane rifugiata che coltiva la passione per la fotografia grazie alla macchina che suo padre, ora incarcerato dal regime di Assad , le ha regalato. La giovane fotografa e TJ creano un forte legame di amicizia e solidarietà che illuminerà l’intero villaggio e insieme all'operatrice umanitaria Laura (Claire Rodgerson), escogitano un piano per riunire le due comunità traumatizzate da diversi motivi, restituendo un messaggio universale di speranza e umanità.

L'ultimo film di Ken Loach, nel classico sodalizio con lo sceneggiatore  Paul Laverty, non si discosta da uno stile documentaristico semplice e lineare che conferisce incredibile realismo alla narrazione nel trattare un tema sociale e politico attualmente incandescente,  attingendo anche a performance di  attori non professionisti.

Il regista per l’occasione rispolvera tutto il suo glorioso armamentario anti-thatcheriano (che ha caratterizzato parte della sua produzione degli anni 80 e 90 falcidiata dalla censura governativa), per mostrarci come quelle comunità inglesi che un tempo furono socialmente molto unite si siano trasformate nelle più ostili agli stranieri, e la fonte dell’odio è rinvenibile in quella disgregazione e nell’isolamento.

Come ha dichiarato Loach: “Quelle comunità avevano questo grande senso di solidarietà e sostegno reciproco, ma gli effetti di questa disgregazione li ha lasciati arrabbiati e vulnerabili rispetto alla propaganda dell’estrema destra. Volevamo raccontare questa storia, insieme all’arrivo dei rifugiati siriani. A quel punto c’erano due comunità: una lasciata senza nulla e l’altra altrettanto abbandonata, ma con il trauma di una guerra alle spalle, in un paese di cui non conoscevano neanche la lingua. La domanda era: riusciranno a trovare un modo per andare avanti? Vincerà l’amarezza, la rabbia, la propaganda dell’estrema destra o l’antica solidarietà dei lavoratori?”.

Ken Loach affida alla sua (presunta) ultima opera una missione di genuina solidarietà umana.