Candidato al Premio Oscar per il Miglior Film Internazionale, The Quiet Girl di Colm Bairéad racconta l’Irlanda rurale a cavallo tra gli anni ’70 e ’80. Cáit, una bambina dolce e silenziosa, è invisibile al mondo e agli occhi della famiglia. Costretti dalla miseria e spinti dalla necessità dopo la nascita di un quinto figlio, i genitori decidono di lasciare la bambina alle cure di Seán e Eibhlín, lontani parenti dai quali si farà ascoltare e amare.

Non ci sono ridondanze estetiche, né la solita retorica sentimentale ad accompagnare lo struggente quadro bucolico dipinto da Colm Bairéad, nonostante il contrappunto musicale di Stephen Rennicks connetta in modo quasi automatico i momenti di climax emotivo e suggerisca gli accenti più drammatici.

Più in generale The Quiet Girl vive come una poesia di T. S. Eliot, nella musicalità della scrittura, semplice e diretta, e trova il suo equilibrio formale in un paesaggio fermo e in una campagna brulla, bisognosa di acqua. Come la vegetazione inaridita, Cáit ha sete, cerca costantemente l’appagamento emotivo e dai cespugli vorrebbe solo essere protetta, come nella sequenza iniziale in cui, all’immobilità della bambina nascosta dalla natura, si contrappone il vitalismo delle sorelle che la cercano affannosamente per riportarla a casa.

Ispirandosi a Foster, una storia breve di Claire Keegan pubblicata nel 2009 sul New Yorker, il regista vuole raccontare una vicenda di crescita individuale e allo stesso tempo scandagliare le lacerazioni emotive che si aprono all’interno di un nucleo familiare piegato dalla povertà e dall’autoritarismo del capo famiglia. Cáit accarezza la vita, guarda il mondo senza disincanto proiettando sulle cose il desiderio di una timida scoperta; non può però dissetarsi alla fonte domestica, perché il “pozzo magico” lo trova a casa di Eibhlín, la moglie del più schivo Seán, presso cui si compirà la sua educazione sentimentale.

La magia, per quanto metaforica e allusiva, proietta il tono del racconto nella dimensione della fiaba agreste, rischiarata da un flusso di immagini naturali e narrata in prima persona dalla “piccola vagabonda”, come la chiama il padre in tono canzonatorio. L’acqua del pozzo, luogo di rigenerazione e insieme mortifero, come si vedrà nel corso della narrazione, “è magica per la pelle”, le dice Eibhlín, ma per apprezzarla a pieno bisogna prima sperimentare la sete, così come per apprezzare il calore familiare, bisogna prima sentire il freddo dell’indifferenza domestica. Colm Bairéad fa suo l’insegnamento di Emily Dickinson nella poesia Water, is taught by thirst e, attraverso il punto di vista di una ragazzina, spiega come si può apprezzare la gioia dopo aver conosciuto lo struggimento e il dolore dell’assenza.

Bastano tramonti tenui e sorgenti cristalline, sguardi lucidi e l’uso studiato del dettaglio compositivo per creare un’esperienza sensoriale profonda che sgorga lentamente, svelando l’innocenza infantile che cerca di dare un senso alle cose, alla morte, al cerimoniale panistico che si nasconde tra le nude foglie, a un abbraccio tanto agognato.

Una moltitudine di temi – l’ipocrisia contadina, la violenza domestica appena accennata, la famiglia disfunzionale e quella acquisita, il trauma familiare – si intreccia nell’universo sentimentale di un autore che nei suoi corti ha sempre prediletto la narrazione di persone sole, forgiate dal dolore, dalla perdita, dall’abbandono.