Maschio bianco etero. Teoria della classe agiata. Dentro The Square c’è l’Europa, ingabbiata nel suo malessere, e ha le sembianze di Christian, brillante curatore del museo d’arte contemporanea adibito dentro l’ex palazzo reale di Stoccolma. Questione di simboli: mentre il braccio di una gru rimuove la statua del re all’ingresso del palazzo, qualcuno dispone i sampietrini attorno al perimetro dell’opera evocata dal titolo. “Santuario di fiducia ed altruismo”, la parafrasi della nuova attrazione dell’imminente mostra: ma come venderla a quei giornalisti smaliziati e letteralmente affamati (life is a buffet)? O, per porla diversamente, come riempiere di senso questa struttura vuota? Se esponiamo un oggetto in un museo è automaticamente un’opera d’arte? Prima del come, il cosa.
Di cosa parliamo quando parliamo di arte. Qualcosa da promuovere. Perché non ispirarsi all’Ice Bucket Challange, quel gioco (play) dove ci si buttava addosso un secchio d’acqua gelata (per raccogliere soldi a scopo benefico, ma che importa)? No, serve una polemica per diventare virali. Vita liquida, commenti, condivisioni. Ma questa mostra è più di un aggiornamento su Facebook: è un banco di prova, non dell’arte contemporanea ma di ciò che rappresenta per il mondo che le gira attorno.
Sulla superficie del suo motteggiare, infatti, Ruben Östlund la prende come specchio deformante delle ambizioni (presunzioni?) di un’élite fuori dalla realtà. Il bersaglio non è l’arte contemporanea, di cui The Square è consapevolmente pieno. Il regista la conosce, la rispetta, ne ammira la capacità perturbante. Con lo sguardo disincantato di chi ha la coscienza della commedia dentro la tragedia: lo scimpanzé che gironzola per il corridoio e si accomoda sul divano. Oppure “You Have Nothing”, come troneggia su un muro bianco di fronte ai cumuli di ghiaia, altra opera il cui senso forse sfugge anche al curatore. Christian, sempre impeccabile, è un amministratore che non esce mai con del denaro in tasca. “Non essere così svedese”, gli dicono, alludendo ai luoghi comuni di una nazione politicamente corretta. Eppure: “Vuoi salvare una vita umana?” “Non in questo momento”. E poi: “Soldi?” “Mi spiace, non ho contante”. Infine: “La redistribuzione delle ricchezze non può competere ai singoli individui”. Tutto, in Christian, svela il disagio della classe agiata, presa da se stessa, circondata da poveri, che accoglie constatandone l’intralcio, volumi in eccesso.
“Quanta crudeltà è necessaria per essere umani?”, tuona il video sensazionalista con cui lanciare la mostra. Östlund fa detonare il senso comune. Accumulando: The Square è uno zibaldone racchiuso nello spazio del titolo. Una meta-installazione di ideali installazioni. Ovvero episodi di una distopia culturale dentro i luoghi lindi, ovattati, uguali a mille altri nel continente del privilegio. Minimalismo asfissiante. Quadri che compongono il museo dell’umana bestialità secondo la regia trasparente, apodittica, ipnotica di Östlund. Un artista in pigiama e la sindrome di Tourette. Una festa elettronica e le effusioni sul clavicembalo. “Il potere è eccitante”. I rumori del museo che interagiscono nel triste dialogo fra amanti occasionali. Performance sull’animalesco in noi che, come in Forza maggiore, svela i limiti della nostra necessità di sembrare migliori. Un cumulo pulito dall’uomo delle pulizie. E, di riflesso, il curatore nella spazzatura. Di quale senso riempiere The Square? Col senso di colpa, col senso della fine.