Quello che porta Maria Boldrin a Vienna per realizzare il suo film di diploma della Zelig è soprattutto un viaggio interiore. Con Theodor la giovane regista italiana ci conduce attraverso i suoi ricordi alla scoperta di un’amicizia speciale e si interroga su cosa sia rimasto di quel legame attraverso il tempo e la distanza.

La Boldrin ci porta con sé sul treno che nelle prime inquadrature attraversa i paesaggi innevati fino alla casa della famiglia che l’aveva accolta durante il suo soggiorno nella capitale austriaca, tre anni prima. Qui torna a essere Momo, la ragazza che per molto tempo si era presa cura di loro figlio: Theodor. Con la sua troupe composta solo da un operatore, indugia tra quelle mura familiari come la prima volta, giusto il tempo per cercare di trovare la risposta alle sue domande. Con il bambino che aveva conosciuto e che sta ormai per compiere cinque anni inizia subito a ricostruire il rapporto del passato attraverso il presente; si destreggia tra ricordi e vita quotidiana, alla scoperta del mondo e del loro rapporto attraverso i suoi occhi. Sarà proprio il quinto compleanno a concludere questo viaggio e riportare Maria in Italia. Sullo sfondo nero di un ritorno che non essendo visto non esiste per lo spettatore, ascoltiamo le parole di una poesia di Vinicius De Moraes che sottolinea ancora la volontà di cercarsi attraverso l’altro.

A introdurci nel mondo di Theo è una lunga inquadratura del suo primo piano; il suo giocare e interagire con l'obiettivo ci dichiara fin da subito l’intento di instaurare un rapporto esplicito con il mezzo cinematografico. La camera è un elemento presente durante tutto il documentario e diventa parte stessa del racconto. Il film non è quindi soltanto il ritratto di un bambino ma il risultato della condivisione del linguaggio cinematografico con lui. Questo intento risulta ancora più evidente nel momento in cui è Theo a prendere in mano la piccola telecamera che Momo gli affida e a mostrarci la casa, la famiglia e soprattutto se stesso attraverso le sue riprese.

È così il bambino, soggetto del documentario, a diventare regista e operatore. Come in The Childhood Experience di Valentina Olivato, il rapporto che i bambini instaurano con gli strumenti del cinema ci spinge anche a una riflessione sull’educazione all’immagine: permettere ai più piccoli l’accesso a questo mondo si rivela uno stimolo necessario alla costruzione delle loro storie.

Il documentario si costruisce e si sviluppa su diversi piani: la voce fuori campo della regista sullo sfondo di una Vienna in movimento ci apre alla sua intimità svelandoci un po’ alla volta il suo rapporto con Theo; i momenti di quotidianità di una famiglia che si esprime soltanto come contesto in relazione al soggetto esplorato sempre più da vicino; i confronti tra Theo e la regista nei pochi momenti in cui condividono lo schermo e i dialoghi tra i due attraverso l’occhio della macchina da presa; le riprese amatoriali e curiose di un bambino che sperimenta per la prima volta il mezzo cinematografico alla ricerca della sua immagine.

I piani si intrecciano come gli sguardi e ci trasportano in meno di un’ora in una storia che sembra non avere tempo. Momo e Theo costruiscono il loro film mescolando presente e passato;voci e dialoghi, immagini e sguardi si susseguono nel racconto delicato non solo di un piccolo quanto prezioso amico, ma di una relazione umana che è rimasta solida al di là del tempo e dei chilometri. Un rapporto che riusciamo a percepire sincero e forte anche dietro l’obiettivo, testimone il sorriso di Theo quando, arrivato il momento di tornare in Italia, Momo propone di fare “qualcosa di bello senza la camera” prima di ripartire.