Metacinema è cinema che parla di se stesso. Sull’argomento si sono spesi fiumi di parole, inchiostro e pixel. Si esordisce quasi sempre con Effetto notte di Truffaut, si fa una capatina dalle parti di 8 e mezzo di Fellini e si arriva ai giorni nostri con The Artist o Hugo Cabret. Gli esempi si sprecano. È cinema che riflette sui propri meccanismi, li rivela e denuda di fronte alla macchina da presa, cinema che si autocita e che sollazza gli spettatori. Difficile rimanere insensibili al fascino del meta, al cinema come nei videogiochi. E di videogiochi meta ce ne sono, solo che sull’argomento non si sono (ancora) spesi fiumi di parole, inchiostro e pixel.

Non si può che iniziare da The Stanley Parable, un’opera talmente illuminante che dovrebbe entrare nei programmi scolastici. Stanley è un impiegato che esegue ogni giorno le stesse identiche azioni, settimana dopo settimana, pigia gli stessi tasti sulla stessa tastiera sullo stesso PC. Un bel giorno qualcosa va storto, il loop si interrompe e a Stanley tocca alzarsi dalla propria postazione per indagare su quanto accaduto. La voce narrante segue (anticipa?) il protagonista, racconta le sue azioni mano a mano che il giocatore procede. Ci sono due porte, la voce narrante racconta che Stanley ha scelto la porta di destra e si è ritrovato in un lungo corridoio. Solo che il giocatore può decidere di prendere la porta di sinistra, ed è allora che la voce narrante si risente. Stanley era tenuto ad andare a destra, non a sinistra. Il meccanismo si è inceppato. Da lì in poi la tensione tra Stanley, il giocatore e la voce narrante si mantiene costante. Il loop riparte e la voce narrante sveste i suoi panni tradizionali e invisibili per discutere con Stanley di quel che può e non può fare come personaggio. Il filo narrativo, sotto forma di una linea gialla, diventa ad un certo punto persino visibile: va sulle pareti, si ritorce su se stesso, e poi si intoppa, poi ripiglia ad attorcigliarsi, e corre e corre e si sdipana. The Stanley Parable è un’arguta riflessione sul ruolo del giocatore e sui meccanismi che regolano i testi videoludici.

Evoland e 3D Dot Game Heroes sono rispettivamente un gioco di ruolo e un action-adventure. Entrambi riflettono sulla storia del loro genere di appartenenza, e in senso lato del videogioco, mostrandone l’evoluzione attraverso la tecnica. Partono cioè da una grafica 2D vecchia scuola e diventano poligonali e 3D lungo il cammino. Una scelta estetica che diventa consapevole riflessione sul progresso tecnologico del medium. 3D Dot Game Heroes si spinge oltre, citando a fondo un grande classico come The Legend of Zelda. Il metagioco, dopotutto, si fa anche attraverso la citazione. Lo sanno bene gli sviluppatori di Far Cry 3: Blood Dragon, che in puro stile tarantiniano hanno creato uno sparatutto fuori dagli schemi: un omaggio agli action movie di un tempo. Il gioco, con i suoi colori flashati e la nostalgica intro retrò, sembra uscito direttamente dagli anni Ottanta. Non c’è dettaglio che non rimandi a qualcos’altro. Il tutorial scherza su se stesso, ironizzando sulle tipiche istruzioni che i giocatori si sorbiscono da generazioni.

Anche una serie rinomata e apparentemente poco sperimentale come Assassin’s Creed cela risvolti metaludicamente inediti. Se i primi episodi abbozzano il tema della simulazione nella simulazione, il quarto capitolo espande ulteriormente il concept. L’avatar del giocatore lavora per la multinazionale che sta realizzando il gioco ed è chiamato a testarlo. Nel suo ufficio ci sono i modellini dei personaggi dei precedenti episodi. L’avatar – ma sarebbe più corretto dire il giocatore – può dare un voto alle missioni, come farebbe un vero game tester, e quando non sta giocando (nel gioco) può interagire coi colleghi ed esplorare gli uffici. Inutile dire che la multinazionale in-game si configura come una trasposizione virtuale della vera casa produttrice di Assassin’s Creed.

Il grado zero del metagioco si mostra infine in un’opera tutta italiana, (this is a) META game! Gli autori – Paolo Tajè, Riccardo Amabili e Marco Canala – ripercorrono in venti livelli le tipiche fasi dell’apprendimento ludico. Ogni livello aggiunge una nuova meccanica, che viene adeguatamente spiegata, sperimentata e commentata. Di scenario in scenario l’esperienza ludica cresce in complessità, ma l’obiettivo di fondo è chiaro: ragionare sull’antica arte del game design e sulle meccaniche ludiche che stanno alla base di molti videogiochi. Con un titolo simile, che altro ci si poteva aspettare?