Parigi. Nella città degli innamorati, Lila e Rémi hanno appena rotto. Lila è infelice ma cova ancora la speranza di poter ricucire, Rémi si è già consolato con un’altra. Sotto il duro colpo del tradimento e dell’impossibilità di ricominciare laddove sembrava esserci un varco da poter provare a percorrere, si apre l’opera prima di Hafsia Herzi, l’attrice kechicheriana per eccellenza. Dopo essere stata scelta dal regista franco tunisino per interpretare il ruolo della giovane e sensuale Rym nell’acclamato Cous cous del 2007 (indimenticabile è la scena in cui si abbandona a una voluttuosa danza del ventre), Hafsia Herzi ha vestito i panni di una delle prostitute de L'Apollonide - Souvenirs de la maison close (2011), diretto dal francese Betrand Bonello, nome caro al cinema d’autore contemporaneo. In Mektoub, My Love: canto uno, l’attrice ritorna nella Sète di Cous cous, luogo emblema del cinema di Kechiche. Il regista la coinvolge ancora una volta nel suo lavoro nell’intento di rendere riconoscibili le tracce di un personale discorso cinematografico.

È grazie al contatto con questi autorevoli cineasti che Hafsia Herzi fa proprie certe tematiche e matura l’idea di mettere in scena i frutti del suo apprendistato. Con Ti meriti un amore, ora disponibile su Mubi e  Amazon Prime, la regista ha di fatto deciso di concedere tutta se stessa a un racconto di cui è protagonista dentro e fuori la finzione cinematografica, portandosi dietro tutti gli umori delle esperienze attoriali precedenti. Proiettato nella Séances spéciales del Festival di Cannes 2019, il film comincia con un esordio in medias res; gli ordigni della relazione sono già saltati, le certezze dell’innamorato svanite. La narrazione prosegue configurandosi come il resoconto di una peregrinazione: la giovane e bella protagonista balza da un’esperienza amorosa a un’altra alla ricerca del senso dell’amore e forse della vita.

Dopo la partenza di Rémi (il Thomas di La vita di Adèle, Jeremie Laheurte) per la Bolivia, Lila (Hafsia Herzi) esplora le molteplici strade del desiderio. Passa la notte con un giovane conosciuto al parco, si iscrive a un sito d’incontri, sperimenta l’ebbrezza del ménage à trois, si concede a un Don Giovanni dell’alta borghesia parigina. In un mondo in cui la scoperta e l’interazione con l’altro passano attraverso una conoscenza il più delle volte casuale e approssimativa, Ti meriti un amore non ha timore di ragionare intorno alla natura insondabile e spesso contraddittoria dei legami affettivi  e si fa carico di offrirci, lontano dalla pretenziosità e dall’esagerazione, un’educazione sentimentale che gioca con il caso e la sua imprevedibilità. 

Se nella scena finale di Pickpocket (Robert Bresson, 1959), il protagonista dichiara di essere finalmente arrivato alla meta ultima della propria esistenza pronunciando la memorabile sentenza: “Oh Jeanne, che strano cammino ho dovuto fare per arrivare fino a te”, in Ti meriti un amore l’oggetto del desiderio non viene mai afferrato nella sua totalità perché la meta è inesistente, il percorso per raggiungerla è tortuoso e inestricabile. Questa inconcludenza prevede che il sentimento sia di volta in volta riprogrammato solo in vista di un suo superamento. Pertanto la regista franco tunisina mette in scena un tentativo, piuttosto riuscito, di indagare la polisemia dei sentimenti attraverso uno sguardo ricco di stilemi che risentono del realismo del cinema di Abdellatif Kechiche ma anche delle influenze della commedia sentimentale.

Non mancano momenti in cui lo spettatore può saggiare le suggestioni che provengono dalle pellicole sopra citate: il cous cous, che viene consumato durante un pranzo, è un omaggio al film che l’ha resa celebre; durante una passeggiata notturna Lila si copre la testa con un foulard, una sottile dichiarazione d’amore verso la propria cultura d’origine. Ma la forza di questa opera prima sta nel suo essere un’elegia del corpo e dell’anima femminile. La macchina da presa, attenta a non scadere mai in una morbosità esacerbata, pone al centro della messa in scena la fisicità della protagonista e ciò che rappresenta: il film coincide con Lila/Hasfia, con il suo sguardo, la sua sensualità, con il suo “mal di schiena”. Viene ad ogni modo sempre concesso il giusto peso alla dimensione corale (agli amici, agli amanti) nonché alle abitudini sociali giovanili, raccontate talvolta con toni ironici ed agili.

Come una nuova signora Bovary, la ricerca dell’amore per Lila culmina nella resa, ma, a differenza dell’eroina del celebre romanzo, il punto d’arrivo non è la morte ma l’attesa di un nuovo turbamento, quello che forse la vorrà con i capelli spettinati o forse no. La scena finale suggerisce che qualcosa sta per accadere, che il vuoto potrebbe essere colmato, nella città in cui, ben al di là dei cliché dell’immaginario collettivo, hanno senso solo l’amore, la poesia e, naturalmente, il cinema: “À Paris, sur la terre, la terre qui est un astre”.