Un dibattito feroce e irriducibile abbaia di cosa dovrebbe eventualmente occuparsi un cinefilo per definirsi tale. È giusto dare spazio a un prodotto di cui si è parlato fin troppo, da più parti, con termini sensazionalistici? Chiariamolo una volta per tutte: non sia mai detto che la cinefilia tenga il suo lungo naso lontano da Zalone. A maggior ragione se un film come Tolo Tolo inizia a polarizzare le opinioni sin dalla sua promozione, aggiungendo al dibattito critico un acceso confronto socio-culturale.

Era prevedibile che il finto trailer di Immigrato avrebbe diviso – furbescamente – i sentimenti del pubblico, così com’era palese che il quinto capitolo di Zalone ambisse a confrontarsi con temi più urticanti dei suoi predecessori. È così che la sceneggiatura co-siglata da Paolo Virzì, esibita come una dichiarazione d’intenti, finisce per coincidere con due cambi di rotta decisivi nella carriera del comico: la rottura del fortunatissimo sodalizio “pop” con Gennaro Nunziante e l’esordio di Luca Medici (il “Checco” nazionale) dietro la macchina da presa.

Non smette di interpretare il qualunquista, Zalone, che fugge dai debiti accumulati a Spinazzola verso l’Africa, vittima e carnefice del sogno di rivalsa piccolo-borghese e carico della consueta insolenza. Una guerra civile lo trasforma in “migrante per caso” o, piuttosto, in un turista costantemente fuori luogo che mette le proprie piccole-grandi necessità al centro di tutto. Tra esplosioni e pallottole volanti, la crema anti-occhiaie e i mocassini Prada diventano bisogni primari e il paradossale viaggio della speranza verso la madrepatria è un pretesto per scontrarsi con storie e umanità a lui decisamente aliene. Il noto e chiassoso ritratto pugliese dal cuore tenero si fonde con temi oggi scomodi e ingombranti (con buona pace dei nazionalisti che ne avevano preso le difese), nell’intento di confezionare un film acido e grottesco, ma al netto di tutto davvero fuori fuoco.

Sembra che il bisogno di Zalone sia quello di smarcarsi almeno un po’ dalla rodata gragnuola di gag per affrontare un mondo satirico che gli è, per certi versi, estraneo, e che avrebbe bisogno di ben altro approccio registico. La leggerezza di Cado dalle nubi e Sole a catinelle lascia il posto a momenti musicali surreali che denunciano la difficoltà di misurarsi con la complessità dell’argomento prescelto e gli intenti, per quanto nobili, sopperiscono a un canovaccio che sa di incompiuto. Una manciata di battute indovinate (alcune davvero brillanti) non basta a sostenere il ritmo di una commedia che nel voler essere a tutti i costi democratica manca del cinismo necessario a sostenerne i tratti più cupi. La parodia della sinistra boriosa (che scomoda direttamente Nichi Vendola, bersaglio del Checco cabarettista in tempi non sospetti), la saudade fascista che “sale” nei momenti di intolleranza acuta e il bislacco percorso politico di un nullafacente che si ritrova a vestire i panni di Presidente del Consiglio bastano a farci riflettere sul presente?

Se Tolo Tolo riesce – in parte – a rispecchiare le superficialità della retorica sul fenomeno migratorio e le ipocrisie di un razzismo travestito da “buonsenso”, resta pur sempre un film modesto che non giustifica l’intensità del dibattito. E sull’estraniante cartoon che chiude le danze con la consapevolezza che siamo semplicemente nati dal lato “fortunato” del globo resta la domanda: cosa c’è oltre l’evento? Un film di passaggio, interludio confuso e poco organico, che fa i conti con il cambiamento ponendosi le nostre stesse domande. E se le aspettative e i dibattiti che appesantiscono il personaggio di Zalone dentro e fuori il successo al botteghino sono il vero specchio dell’Italia di oggi, a Checco non resta che trovare una nuova dimensione da esplorare. “Tolo tolo”, ma finalmente libero.