Tra le tante anomalie che rendono Tonya un biopic atipico dal magnetismo formidabile, quella che più salta agli occhi è senza dubbio l'approccio con cui Craig Gillespie osserva i suoi personaggi mettere in scena di fronte alla macchina da presa le loro tragicomiche esistenze. La white trash americana viene spesso portata sullo schermo con una prospettiva dall'alto, per non dire con esplicita superiorità rispetto ai fatti narrati, ma qui lo sguardo del regista, e di conseguenza del pubblico, viene portato ad altezza d'uomo e rende cristallina la simpatia di Gillespie verso la sua protagonista, intesa nell'etimo greco di “soffrire insieme”.

La parabola sportiva di Tonya Harding, segnata dai warholiani quindici minuti di gloria e da una ben più lunga condanna alla gogna pubblica, è segnata sul nascere dal suo essere un'anormalità al cospetto della norma. Tutto nella vita della pattinatrice è in opposizione ai dettami dell'american way of life: un nucleo familiare composto da un padre inetto e dalla terrificante madre LaVona – ruolo difficilissimo per cui Allison Janney si è guadagnata tutti i premi cinematografici della passata stagione - , un marito tanto violento quanto mediocre che ucciderà la carriera sportiva di Tonya per colpa della sua inettitudine e infine un'appeal fisico in contrasto con la bellezza stereotipata che contraddistingue il pattinaggio sul ghiaccio.

Dove dominano lustrini e chignon Tonya sfoggia pellicce di scoiattolo, vestiti in tulle e un'arruffata chioma bionda che si muovono con grazia sublime sul ghiaccio al ritmo di rock 'n roll, ma non vi è spirito di ribellione nelle sue performance quanto più un'orgogliosa esibizione delle proprie origini redneck che, nella mente della protagonista, possono convivere senza problemi con il suo talento sopraffino. Quando però la realtà prende il sopravvento e l'America che aveva cominciato ad amarla le volta brutalmente le spalle, Tonya Harding diventa lo spauracchio della nazione intera, la dimostrazione di come il sogno americano viaggi su corsie preferenziali e su come la massa, piuttosto che un eroe, spesso preferisca avere un nemico da odiare; con il senno di poi è interessante osservare come l'ossessione mediatica per la protagonista avvenga in un anno cruciale nella storia sociale americana come il 1994, segnato dalla comparsa della real tv e dalla frenesia collettiva per il processo a O.J. Simpson.

Con il suo sguardo duro ma compassionevole verso i perdenti d'America Tonya brilla come l'opposto negativo di Rocky, il racconto di riscatto sportivo per antonomasia nel cinema americano, e non è un caso che il film si chiuda con l'ex stella del pattinaggio impegnata a sputare sangue su un ring di boxe: avvilita e vilipesa ma non spezzata, Tonya Harding trova il palcoscenico adatto per rispondere alla violenza che ha segnato la sua vita e reclama la sua dignità di donna con un ultimo, sprezzante sguardo di sfida verso i suoi spettatori.