C'è una mirabile freddura, citata da Umberto Eco ne Il superuomo di massa, secondo la quale di fronte al romanzo strappalacrime Love Story – all'origine dell'omonima pellicola – si debba proprio avere un cuore di pietra per non scoppiare a ridere. Così come è memorabile il commento in merito di Eco stesso, ovvero che se una macchina narrativa è ben congegnata non potrà fare a meno di produrre nel lettore gli effetti per cui è stata concepita, che quest'ultimo lo voglia o meno. Il lettore potrà sentirsi emotivamente ricattato e manipolato, oppure abbandonarsi con trasporto a quanto è stato tenuto in serbo per lui, ma non potrà non reagire nella direzione prevista.
Questo per spiegare perché Top Gun: Maverick è un ordigno spettacolare a orologeria, una macchina da guerra perfettamente bilanciata fra l'epica struggente e quel cinema da pelle d'oca e mani sudate che è l'unico ancora in grado di far accorrere frotte di spettatori nelle sale. Dato, quest'ultimo, probabilmente in grado di rendere conto del perché questa nuova creatura stia ricevendo critiche entusiastiche urbi et orbi, in maniera ben dissimile dal suo capostipite del 1986: Top Gun aveva sì incassato straordinariamente e creato dal nulla una delle star del decennio, Tom Cruise, ma si era anche al contempo guadagnato pessima fama come apologia del machismo e dell'imperialismo americani, come manifesto del reaganismo sfrenato, nonché – forse questa l'avrete già sentita altre volte in seguito – l'accusa di non essere vero cinema, ma solo estetica da videoclip aumentata di minutaggio.
Ora arriva Top Gun: Maverick, e si fa pregio di sguazzare beatamente fra corsi e ricorsi storici rispetto al film originario. Non si tratta però solo di strizzatine d'occhio ai fan della prima ora (anche se recuperare come love interest del protagonista la figlia dell'ammiraglio, Penny Benjamin, che nel primo film era giusto un nome buono per una battuta di dialogo, è davvero un triplo carpiato da encomio) ma di una rielaborazione profonda e meditata delle analogie e degli scarti fra ciò che era ieri e ciò che è oggi, quasi una meditazione sul tempo per capire ciò che è ancora vero (e giusto) e ciò che è cambiato da allora.
Maverick, quello che un tempo era il pilota geniale e scavezzacollo entrato nella scuola d'élite per i migliori aviatori dell'esercito americano, ora torna sul luogo del delitto come insegnante, richiamato perché c'è una missione impossibile da compiere e, si sa, come lui non c'è nessuno. Non ha fatto carriera nel frattempo, contrariamente all'acerrimo rivale di un tempo, Iceman, perché è rimasto un ribelle tanto in grado di compiere imprese inusitate quanto incapace di non farsi beffe delle regole militari. E se un tempo era il confronto con il padre, pilota d'eccellenza morto eroicamente in battaglia, a condizionare il suo agire, ora è il rapporto con un quasi-figlio, quello del suo amico fraterno Goose, ad essere al centro dei suoi dilemmi morali ora che è diventato suo allievo.
Al netto della completa inverosimiglianza della trama, che sulla carta lancerebbe sospetti di bieco nepotismo sull'esercito americano mentre sullo schermo scorre invece senza intoppi, Top Gun: Maverick affronta in chiave conciliatoria quello che è uno dei grandi temi della contemporaneità, il conflitto fra generazioni. E se il protagonista riesce a dare lezioni a un manipolo di svegli e preparati ventenni dall'alto della sua eccellenza suprema senza sembrare un irrecuperabile boomer, è perché è sempre rimasto un outsider non compreso e relegato ai margini del sistema. E i veri cattivi non sono tanto gli ovvi avversari della battaglia conclusiva, quanto piuttosto le alte sfere del potere militare (incarnate da Jon Hamm e Ed Harris), sconfitte da una improbabile quanto gloriosa insubordinazione finale.
A distanza di 36 anni da un film all'altro, i confronti coi padri sono sempre al centro ma vanno in direzioni opposte: il Maverick di un tempo pativa il confronto con un padre perfetto, il giovane Rooster di oggi soffre per i torti subiti da una figura paterna, Maverick stesso, che dovrà fare dietrofront per arrivare a una ricomposizione nella quale nessuno dei due vinca sull'altro, ma entrambi ammettano la reciproca indispensabilità.
Se qualcosa oggigiorno non va, non è colpa di padri e figli, ma del mondo là fuori: negli anni '80 i top gun erano superuomini al comando di una tecnologia avveniristica di cui andavano fieri, ora la stessa si è spinta talmente in là da rischiare di far fuori pure i superuomini stessi. L'entrata in scena di Maverick nel 2022 ce lo fa reincontrare mentre sta per affrontare una sfida sovrumana, con lo scopo di conservare il posto di lavoro ai collaboratori a lui vicini, mentre l'esercito va nella direzione di sostituire gli uomini con i droni. “Non è l'aereo, è il pilota” a far vincere la battaglia, viene ripetuto a più riprese come un mantra, e la missione al centro di tutta la storia è soprattutto una sfida dell'ingegno umano all'implacabilità di macchine che non sbagliano mai.
In questo inaspettato quanto convincente neoumanesimo, la battaglia si gioca prima sul piano dell'intelletto, per trovare una soluzione strategica adeguata al rompicapo, e poi, una volta entrati nel vivo, sullo stoicismo titanico del corpo: le eccellenti sequenze d'azione sono in parte mimetiche della spettacolarità originaria di Tony Scott, in parte rielaborate per enfatizzare gli effetti dello sforzo strenuo sui volti dei piloti (il cast è stato sottoposto a un training militare per familiarizzare con le prove richieste, e si è autofilmato nelle sequenze all'interno degli abitacoli in volo). Non si tratta solo di cinema vertiginoso e iper-spettacolare modello Marvel, intento a indurre una risposta epidermica e ancestrale, ma di vero storytelling dello struggimento dei protagonisti.
Al centro di tutto, naturalmente, c'è il corpo di Tom Cruise. Un corpo che lotta con il limite sullo schermo, a rispecchiamento di una lotta contro il limite nella realtà: anagraficamente sulla soglia della terza età ma ancora saldamente in testa come eroe di blockbuster d'azione e superstar hollywoodiana, scansa le accuse di barare con la chirurgia estetica e continua indefessamente a eseguire da solo i suoi stunt. Sceglie, elabora e produce i suoi progetti, si circonda dei collaboratori di cui si fida (in primis “i soliti” Joseph Kosinski e Christopher McQuarrie, qui rispettivamente regista e co-sceneggiatore), e riesce a mostrare una via all'epica consolatoria in un momento storico in cui gli altri arrancano o stemperano nell'ironia. Il tutto non nascondendo i lati oscuri e trovando il modo di celebrare Val Kilmer, prostrato da grave malattia, e Tony Scott, morto suicida.
Se a metà anni '80 era una giovane promessa, lo ritroviamo oggi sulla soglia di venir decantato come un venerato maestro – appena insignito della Palma d'Oro onoraria nella non proprio nazionalpopolare Cannes – con giusto una breve fase da solito scientologista nel mezzo.