“Occhio ai dettagli!” ripete varie volte Jack Cunningham (Ben Affleck) ai suoi ragazzi. Li invita a non sottovalutare nulla in una partita di basket. Tutti i dettagli contano per portare a casa un risultato: ogni rimbalzo, ogni passaggio, ogni tiro. Sono i dettagli che alla fine fanno la differenza. Bisogna ammettere che questo consiglio, per chi decide di mettere in scena una classica e piuttosto convenzionale storia di redenzione attraverso lo sport, deve essere risuonata quasi come un mantra, se non addirittura come una dichiarazione di intenti.

Come mantenere infatti un proprio sguardo riconoscibile e lasciare il proprio segno d'autore anche attraverso il racconto di una vicenda che di originale non ha praticamente nulla? Attraverso i dettagli. Attraverso ogni singola inquadratura. E davvero qui non c'è una sola inquadratura che non abbia un peso specifico, un suo spessore narrativo, un suo significato espressivo pregnante.

Facciamo un passo indietro. La storia, come si diceva, è piuttosto semplice e simile ad altre mille. Un talentuoso ex giocatore di basket, ormai uscito dal giro e avviato ad una vita ai margini, vive alternando un lavoro da operaio e le sue ubriacature serali, con l'alcol immancabile compagno di vita per tenere a freno ricordi troppo dolorosi. Una telefonata insperata gli offre una chance di avvicinarsi nuovamente allo sport tanto amato: allenare la squadra che lo vide protagonista da ragazzo. Qui avrà occasione di dare una propria fisionomia alla squadra, di instillare fiducia e rigore a ragazzi troppo poco convinti dei loro mezzi e non di meno, troverà una ragione per ridare un senso alla propria vita.

Spesso nelle storie che Gavin O'Connor decide di mettere in scena, aleggia una figura paterna imponente, talvolta ingombrante modello, più spesso despota violento. Già in Warrior (2011), in cui il padre aveva le fattezze alcoliche e slabbrate di Nick Nolte, passando per The Accountant (2016), la prima collaborazione di Affleck col regista, e non di meno in quest'ultimo, dove il padre è sopratutto una figura di sfondo ma non meno distruttiva e segnante. Qui poi il tema della paternità è sviluppato su un doppio binario perché il protagonista è (stato) padre a sua volta, ed è attorno a questa paternità (metaforizzata forse anche dallo stesso ruolo di allenatore)  che si gioca il nodo emotivo della vicenda.

Parlavamo però di dettagli e di come il modo con cui il regista costruisce ogni scena renda questo film tutt'altro che ordinario, pur se inscritto in un filone al quale apparentemente non aggiunge granché. O'Connor aveva già mostrato di saper riempire lo spazio delle inquadrature con una ricercatezza formale decisamente non comune e conferma qui come la sua ricerca estetica sia consustanziale al suo modo di indagare i personaggi, di raccontarli, di metterli in scena. Lontano da qualunque possibile accusa di formalismo, lo stile si fa qui veicolo di sostanza narrativa.

Un lavoro sul “fuori fuoco” e sullo spostamento del protagonista “ai margini” dell'inquadratura che, ben al di là di qualsivoglia sfoggio di stile, ci appare quasi come una sorta di correlativo oggettivo per veicolare sensazioni e comunicare i sentimenti dei protagonisti. Si resta infatti subito colpiti da un certo modo di lavorare con la profondità di campo, di usare lo spazio scenico ora come quinta, ora come ambiente dentro cui far assorbire la presenza del personaggio isolandolo, o piuttosto immergendolo dentro una realtà molto più grande di lui, per poi passare a primi e anche primissimi piani di sorprendente intensità. Essenziale per una ricerca visiva di questa qualità, la collaborazione di un valido direttore della fotografia, così O'Connor si affida questa volta a Eduard Grau, che si era già fatto notare per la sua collaborazione con Tom Ford per il suo A Single Man.

Senza voler scomodare autori di ben altro spessore, ma per trovare film di argomento sportivo girati  con questa qualità, occorre forse scomodare niente meno che Alì di Michael Mann (che andava certamente da tutt'altra parte ma non ci sentiamo affatto di escludere che Mann sia fra i referenti del regista).

Questo magnifico lavoro di scrittura visiva sarebbe però, se non inefficace quantomeno piuttosto sterile, senza un protagonista capace di dare un valore, un peso e una reale profondità al lavoro del regista. Sappiamo infatti che Affleck è stato due volte in clinica per disintossicarsi dalle sue derive alcoliche e ha fortemente voluto questa parte, cucendosela addosso con grande rigore e senza alcun eccesso, dando corpo ad un personaggio appesantito e dolente che svela i segni di un dolore inconciliabile. Consapevole dei suoi limiti espressivi, grazie ad una maturità attoriale raggiunta anche lavorando con grandi registi (rivedere Gone Girl di David Fincher per fugare ogni dubbio), riesce ora a sfruttare a suo vantaggio la sua mimica un po' limitata, grezza, poco sfumata, senza cercare di essere l'attore che non può essere; ha saputo infatti con intelligenza dare un valore all'economia di gesti e di espressioni, lavorando in profondità sulla qualità dei suoi movimenti e sulla loro pregnanza, fino ad acquisire una presenza scenica di grande impatto.

Tutta la pellicola è sorretta e abitata dal corpo e dallo sguardo di Ben Affleck, al quale il regista regala alcuni dei primi piani più intensi della sua carriera, e alla quale lui si dedica con una dedizione, una sicurezza e una incisività che osiamo sperare non lascino davvero più alcun dubbio sulle sue raggiunte e consolidate qualità attoriali.