Stanze, cortili, muri, residenze, palazzi: che siano inquietanti architetture familiari (Saltburn, La zona d’interesse) o alveari di solitudini (The Holdovers, Estranei), sembrano inaugurare questo 2024 cinematografico con una riflessione comune sullo spazio dell’assenza, della solitudine, dell’intravisione. Che è poi una spazialità di confini invalicabili e al contempo sottilissimi, dove aliti di vita si confondono con un rigido senso di minaccia. Luoghi e non-luoghi dove l’esistenza pulsa — urlante e silenziosa, cieca e guardona — in strenua e inquietante opposizione alla morte.

Una dualità che Lila Avilés rivendica con una dolcezza straziante nel suo secondo lungometraggio, seguendo questa tendenza di scrittura che continua a procedere per sottrazione, come acqua cheta capace di corrodere i ponti. Totem — scelto per rappresentare il Messico agli Oscar 2024 e che ha conquistato la Giuria Ecumenica alla Berlinale — è un film che opera attorno a un’assenza presentificata, opprimente quanto la vita che la circonda. Vitalità frenetica, operosa, stretta ancora una volta attorno alla perdita, in un 4:3 che si fa assedio corale e individuale. Un vero e proprio rituale d’attesa processato nelle piccole stanze di un appartamento, che la protagonista di sette anni (Sol) e i suoi familiari riempiono di nevrosi e astenie riflessive.

I personaggi di Totem sono pianeti che girano vorticosamente attorno alla figura del padre di Sol, Tonatiuh (che è il nome del Dio Sole azteco). Due stelle, dunque, di cui una evanescente, resa fioca e trasparente dal cancro che la consuma: una deità terrena destinata a trascendere le barriere della stanza in cui è rinchiusa. Irraggiungibile per la figlia, alla quale è vietato salire le scale e “varcare la soglia”, Tonatiuh viene definito quasi esclusivamente dalle azioni delle sorelle, del padre, dei cugini e degli amici che si preparano a celebrarne il compleanno… e la prossima fine.

È una collettività in fermento confinata al piano di sotto, scandita da pulizie, torte bruciate, congetture, conflitti decisionali ed esorcismi (dichiarati e inconsapevoli). Il tutto accade mentre Tonatiuh si aggrappa, con l’aiuto dell’amorevole badante, alle ultime forze disponibili per manifestarsi ai suoi affetti. E se la divinità nella mitologia azteca ha il potere di governare e scandire i tempi del giorno, è nell’arco di una giornata che si svolge questo sacrificio sentimentale.

L’importanza di Totem è tutta qui, nella molteplicità di toni che danno forma alla mortalità. C’è un modo adulto di ignorare la fine — che “mistifica”, in modi seri e ridicoli — e c’è un modo bambino di viversi la tragedia. È una tensione filtrata dallo sguardo di Sol, rassegnato alle bugie degli adulti quanto alla distanza fisica che c’è tra una bambina e suo padre. Una malinconia che stride col vociare della tribù e che si muta in consapevolezza sotto i nostri occhi, quasi a rifuggire la funzionalità di una catarsi collettiva. 

Lila Avilés riduce lo spazio filmico per farne la propria casa interiore, lo specchio uguale e difforme di un proprio interno topologico affettivo. E lo fa ponendosi a distanza ravvicinata dai soggetti coinvolti, scontornando i desideri celati sotto gli obblighi di un protocollo sacro e pagano. Sono frustrazioni e bisogni nati per essere disattesi dall’ineluttabilità degli eventi, ma che svelano tutte le umane contraddizioni di questa sospensione schiacciante.

È un modo asfittico di girare che è allo stesso tempo carico di respiro — di vita, appunto. Una danse macabre di grandi sofferenze disseminate nei “piccoli dolori da nulla” del quotidiano e di una festa finta e irrealizzabile, dove ognuno scalpita in modo diverso in questa camera ardente che è il piano di sotto. In un potentissimo primo piano sugli occhi di Sol, la luce tremolante delle candeline al buio danza con un senso di resa e rinascita che sembra impossibile da contenere, da accettare. Eppure, come ci ricorda questo piccolo grande film, non possiamo fare altro.