Richard Fleischer è una figura molto particolare del cinema americano: un regista che si è costantemente mosso tra un cinema di serie A e un cinema di serie B (ammesso che esistano davvero tali distinzioni), tra pellicole low-budget e kolossal, tra film di genere e film d’autore, riuscendo nell’impresa non semplice di affrontare i generi più disparati con una propria impronta stilistica. Nella sua lunga ed eclettica carriera, che va dagli anni Quaranta agli anni Ottanta, uno dei filoni più frequentati è stato il noir, inteso in varie declinazioni quali il gangster-movie, il poliziesco (spesso mescolati), il thriller giudiziario oppure il thriller incentrato sui serial killer.

Grazie al restauro della Film Noir Foundation, possiamo recuperare uno dei suoi primi film, Trapped (1949), un noir ingiustamente caduto nell’oblio – tanto che in Italia è inedito – ma propedeutico a suoi futuri classici come Le jene di Chicago (1952), nonché un piccolo grande cult per i cinefili. L’inizio della carriera per Fleischer, come accade per molti registi, è avvenuto in un sistema produttivo low-budget, nel quale però era già visibile la mano solida dell’autore, in grado di sfruttare al meglio i pochi mezzi a disposizione per creare suspense, delineare personaggi e penetrare nei canoni del noir.

Trapped – che significa letteralmente “in trappola” – è la storia di Tris Stewart, un falsario detenuto nel carcere di Atlanta che sta scontando una pena per la contraffazione di banconote. Quando una di esse viene ritrovata casualmente in commercio, il Dipartimento del Tesoro decide di proporre al criminale un patto: uscire di prigione in libertà vigilata e mettersi in contatto con i membri della sua banda ancora in libertà, per trovare chi continua a produrre e smerciare le banconote. Stewart finge di accettare, ma alla prima occasione fugge dall’agente che lo stava sorvegliando e raggiunge a Los Angeles la sua donna, che lavora in un night-club. Il falsario rintraccia i vecchi complici e progetta un ultimo colpo per poi fuggire in Messico con la ragazza: ma non sanno che i Servizi Segreti li stanno tenendo d’occhio, e che hanno infiltrato un loro uomo nella nuova gang.

Questo splendido noir di Fleischer inizia in modo anomalo, con un ringraziamento al Dipartimento del Tesoro per la collaborazione prestata, e soprattutto un elogio al Dipartimento stesso e ai Servizi Segreti per la loro attività che svolgono a tutela della legge. È un incipit quasi propagandistico, all’insegna del politically correct, un elogio al governo statunitense che è molto figlio del suo tempo – erano gli anni del Secondo Dopoguerra – e che visto oggi suona retorico e tronfio. Ma non c’è da preoccuparsi, perché terminata in pochi minuti questa parte con toni da documentario, Trapped si incanala nei territori del noir più genuino.

Fleischer, in soli 79 minuti e con un budget visibilmente ristretto, riesce a creare un riuscito incrocio fra gangster-movie e poliziesco degno di altre opere coeve e più celebri – pensiamo a I gangsters di Robert Siodmak – mettendo in scena vari personaggi e stilemi del genere, con una descrizione minuziosa del milieu criminale. Il merito va ad una sceneggiatura intricata, ricca di doppiogiochisti e colpi di scena, e soprattutto ad una regia quadrata, senza tanti fronzoli né orpelli stilistici ma efficacissima: che sarà poi uno dei tratti distintivi della poetica di Fleischer nei suoi film più celebri, dal suddetto Le jene di Chicago a Sabato tragico, da Frenesia del delitto a Lo strangolatore di Boston.

Trapped è un noir di stampo gangsteristico e poliziesco, dove il protagonista (il bel tenebroso Lloyd Bridges, padre dei celebri Jeff e Beau) è un criminale incallito, un personaggio borderline come prevede il genere: non un rapinatore come siamo abituati a vedere, ma un falsario – e anche questo rende il film un unicum – al cui fianco sta immancabilmente una donna ambigua (ma siamo lontani dalla dark lady di film come Il grande sonno), piccoli delinquenti e un boss che si è fatto una posizione intoccabile – interpretati da attori non famosi ma con le grinte giuste. Fondamentali per l’intrigo sono anche i rappresentanti della legge, non semplici poliziotti ma agenti del Tesoro e uomini dei Servizi Segreti. Stewart si ritrova letteralmente in trappola, come il titolo promette e mantiene, strumentalizzato dagli agenti governativi in incognito: e mentre risale sempre più in alto la scala del crimine nella sua vecchia banda – un po’ come farà anni dopo Lee Marvin in Senza un attimo di tregua di John Boorman – attorno a lui si tesse una rete implacabile.

Muovendosi fra main street e strade deserte, night-club, uffici e hangar utilizzati come covo – e con una fotografia in un bel bianco e nero degno dei migliori hard boiled – Fleischer mette in scena una tensione continua e sempre pronta a esplodere, come nei cruenti scontri corpo a corpo fra Bridges e i numerosi avversari, con la violenza sottolineata dalle musiche che irrompono improvvise. Lo stile è asciutto, nervoso, sincopato, e la preparazione lunga e meticolosa dei momenti clou – vedasi tutto il lungo finale nel deposito dei tram – è un marchio di fabbrica dei suoi noir, che vedremo riproposto per esempio nella resa dei conti sul treno ne Le jene di Chicago o nella rapina in Sterminate la gang. La conclusione, che vede opposti il boss e gli agenti, è da manuale, con la macchina da presa che segue i personaggi e i silenzi rotti dagli spari: uno stile rigoroso e maturo che anticipa quello di futuri maestri come Don Siegel.