Dan Rather, storico volto della CBS News, e Mary Mapes, produttrice del programma televisivo 60 Minutes, sono i pezzi da novanta del giornalismo televisivo americano. Nel 2004 realizzano un servizio in cui si dimostra come il presidente George W. Bush non abbia prestato servizio nella Texas Air National Guard durante la guerra in Vietnam. Lo scoop, tuttavia, gli si ritorce contro e i due giornalisti assistono inermi al tracollo della loro vita professionale e privata.

A poche settimane dalla vittoria agli Oscar de Il caso Spotlight di Tom McCarthy (del quale ve ne abbiamo parlato qui), che presenta il giornalista come una figura vincente capace di smascherare le storture della società, arriva nelle sale italiane Truth – Il prezzo della verità (in programmazione al Lumière in lingua originale sottotitolata), esordio alla regia dello sceneggiatore James Vanderbilt. È anch’esso tratto da una storia vera di giornalismo d’inchiesta ma questa volta ciò che abbiamo è un dramma sulla sconfitta dell’informazione a beneficio dei poteri forti.

Il cuore pulsante dell’opera, esplicitato dal titolo, è la verità come oggetto di scontro tra chi è intenzionato a ricercarla ad ogni costo e chi vuole averne il controllo ideologico. La prima parte della storia procede a ritmo incalzante e, a tratti, divertente nel mostrare i protagonisti al lavoro per mettere insieme i pezzi dello scandalo; ma quando la vittoria sembra ormai annunciata la politica passa al contrattacco: la veridicità dei documenti viene messa in discussione, si crea un gigantesco circo mediatico intorno a questioni tecniche come “caratteri” e “formattazione” e quella che sembrava una ricostruzione inattaccabile si rivela un castello di carte destinato a seppellire la verità e, con essa, le carriere di Rather e Mapes.

È qui che il regista pone allo spettatore uno degli interrogativi più suggestivi del film: come ha potuto l’opinione pubblica disprezzare con tanta facilità i due giornalisti senza però chiedersi se la loro storia fosse vera? La risposta di Vanderbilt suona come un’elegia del giornalismo investigativo: nell’epoca di Internet, dove chiunque può ottenere e inventare informazioni, la verità non fa più notizia e sono le chiacchiere a determinare gli equilibri politici di una nazione.

Cate Blanchett è perfetta nel ritrarre il declino psicologico di Mapes nella sua ostinata ricerca di giustizia, ma una menzione di riguardo va al quasi ottantenne Robert Redford, attore e autore liberal per antonomasia: dopo aver incarnato un archetipo del giornalista eroe come il Bob Woodward di Tutti gli uomini del presidente, solo lui poteva interpretare un altro pezzo di storia americana come Rather, ultimo rappresentante di una stampa in via d’estinzione ma non per questo meno indispensabile, come evidenziato nel bellissimo monologo finale.

Al netto di una carriera in bilico tra sperimentazioni sui generi e cinema mainstream (suoi gli script sia di Zodiac di David Fincher che di The Amazing Spider-Man di Marc Webb), Vanderbilt realizza un’opera prima di stampo classico ma estremamente avvincente, schierata dalle parte dei vinti ma mai retorica.