Dopo un anno dalla sua prima visione televisiva, Tutte a casa - Memorie digitali da un mondo sospeso (Italia, 2022) approda al cinema in una rassegna itinerante. A partire dalla citazione nascosta nel titolo di questo documentario (il riferimento al celebre film di Comencini), Tutte a casa delle registe Nina Baratta, Cristina D’Eredità, Eleonora Marino è una operazione culturale di grande interesse. Perché nasce, in primis, da un rovesciamento di prospettiva operato su più direttrici: la prima è quella del titolo, ossia, chi torna a casa e perché.

In Tutti a casa di Comencini erano gli uomini a tornare a casa dopo la dichiarazione dell’armistizio del ‘43, ed era un ritorno desiderato ambito, quello dalla guerra verso casa propria. In Tutte a casa invece il rientro e lo stallo nelle proprie domestiche abitazioni è coercitivo ed ineludibile e soprattutto evocativo, per le donne, di un momento storico precedente la cosiddetta emancipazione femminile, nel quale le donne stavano a casa non per scelta, ma per costrizione. La guerra sembra essere stavolta quella che opera internamente agli animi delle persone di sesso femminile dilaniate, a causa della pandemia, da una spaccatura sempre più concreta tangibile e materiale, fra la donna (che vive, lavora, si svaga) fuori di casa, e la donna  domestica (che tutt’al più si prende cura degli altri).

Un’operazione culturale di grande interesse dicevamo, innanzi tutto per la sua genesi di documentario partecipato composto da video girati con il proprio cellulare da donne (di estrazione sociale ed età diverse), durante il lock down causato dal Covid-19. Ecco il secondo rovesciamento: una regia non monolitica e non centralizzata, bensì plurale e collettiva. Un progetto di film che prende forma tramite una regia a distanza e la trasformazione di video selfie in “video diari” dal potente valore catartico e perfino terapeutico.

Una sceneggiatura “work in progress”, nata da una call online e alla quale hanno partecipato anche le protagoniste stesse via via che inviavano i loro contributi video, elaborando le linee narrative insieme alle registe. Dunque un film di montaggio, che, con un lavoro mastodontico e certosino, fa dialogare tra di loro in un tessuto di storia condivisa (sociale e privata) immagini nate in contesti diversi, girate con mezzi differenti (anche nella qualità dell’immagine), differenti abilità tecnico/narrative. Questo rende eccezionale il risultato ottenuto dal lavoro di produzione e post produzione che lo ha intessuto e che rievoca solo un noto precedente di questo genere, il bellissimo Life in A Day prodotto da Ridley Scott per Youtube e diretto da Kevin Macdonald.

Sono questi gli elementi principali di un esperimento cinematografico innovativo, messo in piedi da un gruppo di donne, un collettivo di sedici professioniste dello spettacolo, che si sono conosciute (online) durante la pandemia e hanno deciso di trasferire sul grande schermo la loro esperienza di donne costrette in casa dalla emergenza sanitaria, riappropriandosi di una narrazione (quella della pandemia) dominata pubblicamente dalla voce degli uomini (politici, virologi, economisti) con un gesto dal sapore politico, un gesto che ha voluto dare voce al lockdown (silenzioso, sommerso, sospeso, sofferto) delle donne. 

Conosciamo ormai perfettamente la grave ricaduta della chiusura pandemica sulla condizione delle donne nelle nostre realtà, in senso peggiorativo, donne protagoniste di almeno il 60% dei casi di posti di lavoro perduti, o madri costrette al licenziamento per far fronte alle esigenze di cura dei propri figli lasciati a casa dalle scuole chiuse, figlie chiamate ad accudire i genitori malati o non autosufficienti, donne vittime di violenze domestiche segregate in casa con i loro aguzzini.

A dare un volto al lockdown italiano sono solo alcune delle cinquecento donne che con oltre ottomila video, prodotti dall’8 marzo al giugno 2020, hanno voluto partecipare alla costruzione di una memoria collettiva audiovisiva, sublimata in una indagine poetica che supererà i limiti dell'oggi e dell'urgenza del Covid-19, per trasformarsi in un preziosissimo patchwork memoriale. La coralità di Tutte a casa assume un valore totemico, perché supera il fatto di essere puro metodo di produzione, per trasformarsi in atto creativo, l’atto di una gestazione collettivizzata in nome di un comune denominatore: il sentimento del femminino.

Il canovaccio del film si stende a partire dalla riflessione su alcune parole chiave: la casa, il corpo, la cura (di sé e degli altri), la crisi, la rinascita, la libertà. La casa, le case degli altri così simili alla nostra, gli spazi, ristretti o ampi, solitari o condivisi, il gabinetto come unico baluardo di una privacy ritrovata, le cucine teatri di una confidenza con l’elaborazione dei cibi riscoperta (dimenticata invece nel mondo del pronto/cuoci e della vita fuori dalle quattro mura), i balconi e le terrazze come luoghi di un'apertura in cui riscoprire il cielo sopra le proprie teste ed agognare un raggio di sole. La casa, reinventata come spazio multifunzionale, in cui si cerca la conciliazione tra i traguardi di un secolo di emancipazione e la prepotente pressione regressiva di modelli sociali vetusti e superati. E poi ci sono i giochi con i bambini (creature invisibili durante i lockdown), l’insegnante alle prese con la Dad, la figlia che assiste la madre ammalata, le feste di compleanno coi parenti via whatsapp, le sarte che cuciono mascherine di stoffa da donare, le volontarie che portano la spesa agli anziani, la vita di chi lavora in ospedale e nei supermercati.

Tutte a casa non dimentica proprio nessuna/o, e ci fa ricordare “quante cose abbiamo dovuto mettere tra parentesi” anche noi quando tutto è cominciato, e come sia comune la sensazione di “non riuscire a riprendere il filo di quello che stavamo facendo prima della galera”. Ma il film si chiude con le immagini della Festa della Liberazione, quel Venticinque Aprile festeggiato sui balconi o dalla finestra, con il canto liberatorio di Bella ciao e le bandiere rosse stese a sventolare.

Una liberazione arriverà, che sia fatta di carri armati americani, di DPCM “liberatutti”, percorsi emancipativi o anche solo frutto di un'elaborazione creativa e artistica poco importa. L’essenziale è che ci sia. E la liberazione stavolta è tutta femminile.