La notte del 13 novembre 2015 Ramón González si trovava al Bataclan con la fidanzata e alcuni amici per assistere al concerto degli Eagles of Death Metal. Ramón ha raccontato la sua esperienza di sopravvissuto nel libro Paz, amor y death metal (titolo omaggio all’album d’esordio della band) che ha ispirato Isaki Lacuesta per il suo ultimo film: Un anno, una notte. Già dal titolo si capisce che il cuore del film non sono tanto la notte e l’attentato, ricostruiti da regista e sceneggiatori attraverso diverse testimonianze, ma soprattutto i mesi successivi vissuti dai protagonisti, Ramón e Céline, una coppia di superstiti.
Lacuesta insegue il dolore nella vita e sulla pelle dei suoi personaggi e cerca di dargli forma cinematografica. Il trauma prende il volo come una particella di polvere da sparo e lascia in silenzio il Bataclan nei riflessi d’oro di una coperta termica. Ma, proprio come un frammento di polvere, si insinua dentro i protagonisti, nel loro respiro, senza lasciarli. Il regista sceglie di frammentare l’attentato, senza cedere alla morbosità, ma lanciando i ricordi in tanti flashback, come proiettili che colpiscono la vita di Ramón e Céline.
Già in Entre dos aguas (2018), Lacuesta aveva affrontato il problema del trauma e della sua elaborazione, in quel caso la morte violenta di un padre attraverso lo sguardo di due fratelli. In Un anno, una notte viene mostrata la crisi di una coppia che elabora la notte del Bataclan in modo opposto: Céline (Noémie Merlant) rimuove l’accaduto, non vuole parlarne, cerca di cancellare il passato e andare avanti, mentre Ramón (Nahuel Pérez Biscayart) subisce violenti attacchi di panico, lascia il lavoro, sempre più ossessionato dal bisogno di aggrapparsi a ogni ricordo per superare il trauma.
Le due reazioni antitetiche sono incarnate in modo profondo dai due interpreti. Il volto di Céline (Noémie Merlant) trattiene il dolore fino all’estremo, mentre cerca di accogliere l’esuberanza e l’esplosività del trauma di Ramón, viva e angosciante nell’interpretazione di Nahuel Pérez Biscayart. Merlant (Ritratto della giovane in fiamme, Parigi, 13Arr.) e Pérez Biscayart (120 battiti al minuto, Lezioni di Persiano), fra gli attori migliori del panorama internazionale, danno vita e spessore al film: il granello di polvere diventa segno tangibile e toccante sulla loro pelle. Colpisce soprattutto la loro capacità di rappresentare e far scontrare due reazioni al dolore così diverse, senza che nessuna perda la propria forza.
Oltre alla prova dei due attori, la regia di Lacuesta propone alcune idee interessanti, come la ripresa dell’estetica e della fotografia della festa svuotata di leggerezza e riempita di inquietudine. Ma altre scelte convincono meno. La gabbia del trauma viene resa con un uso claustrofobico di primissimi piani efficaci ma, forse, eccessivi. La crisi della coppia vive di immagini già viste, soprattutto nell’uso dello spazio domestico: i riflessi che moltiplicano le immagini – e l’io – dei protagonisti o i dialoghi attraverso una porta a vetri funzionano, in termini patetici, ma sono un po’ didascalici.
Nella rappresentazione di una quotidianità sconvolta Un anno, una notte ricorda un altro film “parigino” recente: Full Time di Eric Gravel. Entrambi partono da un evento: lo sciopero dei mezzi e l’attentato. Entrambi seguono, anzi pedinano, i protagonisti in una città ormai priva di coordinate (in questo più vicini al Neorealismo, che alla Nouvelle Vague). Certo, i due eventi sono di portata diversa e qui sta il problema principale del film di Lacuesta. Gli attentati di Parigi sono fatti ricchi di implicazioni politiche, sociali, culturali.
Il regista non lo ignora, ma sembra più interessato all’aspetto psicologico e alla crisi della coppia. Così l’immigrazione, il problema delle periferie, la crisi generazionale di Céline e Ramon vivono solo di accenni, ma avrebbero meritato più attenzione. Questo non tanto perché un film sul trauma di una coppia debba affrontare tutti i problemi sociali che la riguardano, piuttosto per la profonda complessità storica degli attentati di Parigi.
Anche la riflessione sulla capacità del dolore di alterare la realtà, di creare possibili sliding doors o, addirittura, di riscrivere gli eventi è interessante da un punto di vista cinematografico, ma non sembra adatta all’evento scelto: troppo recente, troppo connotato e complesso per un’operazione così tanto legata alla psiche individuale e alla soggettività dei personaggi. Sia chiaro, la sfida di Lacuesta era molto difficile e non tutto è perduto, forse, però, più per le interpretazioni dei protagonisti che per il film in sé.