Di corpi e di cosa significhi averne (o averne avuto) uno pare aver molto da mostrare quest’anno il Festival dei Popoli di Firenze, giunto alla sessantaquattresima edizione. Almeno a giudicare dalla programmazione dei primi tre giorni, nonché dal motto ufficiale: My Body Is a Noise, forse preso in prestito dal film di apertura Joan Baez, I Am a Noise, tentativo di esaurimento di un’icona dietro la quale tanti io diversi aspettavano di essere raccontati. Corpi come rumori, segnali di vita da captare e decifrare, ma anche interferenze che comportano fastidio e ostacolo, insieme glitch e annunci da intercettare nel panorama di parecchi documentari ancora mai visti in Italia e qualche film che documentario è solo in parte, o per finta o per gioco.

A un terzo del Festival, diretto dal 2020 da Alessandro Stellino, si può già dire che il valore aggiunto dei Popoli è il bilanciamento tra le sezioni competitive e non: se il concorso internazionale è impreziosito dall’ultimo pannello della trilogia parigina di Mia Engberg, che in Hypermoon conclude i propri esercizi di stile sulla grana della memoria iniziati in Belleville Baby e proseguiti in Lucky One, quello italiano saluta il ritorno in patria del “cubano” Tommaso Santambrogio, che già alle Giornate degli Autori due mesi fa ha stupito con Los océanos son los verdaderos continentes e a Firenze ha portato Taxibol (rara occasione di vedere Lav Diaz interpretare se stesso).

Di fianco a questi titoli sfilano in Let the Music Play il meglio dei documentari musicali contemporanei selezionati da Emanuele Sacchi (occhio all’implacabile Pianoforte del polacco Jakub Piątek), mentre nei prossimi giorni Habitat accoglierà opere dalla spiccata vocazione politica e antropologica, come da tradizione per un Festival da sempre preoccupato dell’impatto del cinema sul mondo e viceversa – e a questo proposito: gli accrediti sono in carta biodegradabile contenente semi da piantare una volta tornati a casa. Chapeau!

Quanto all’unicità dei lavori presentati e quanto all’urto e all’urgenza di rappresentazione dei suddetti corpi i film notevoli si sono visti soprattutto nelle altre sezioni e nei due omaggi annunciati con largo anticipo. Grazie alla retrospettiva dedicata a Tatiana Huezo è finalmente possibile conoscere in Italia il cinema di contemplazione dei cicli naturali e degli effetti della violenza girato in Messico dalla regista di origine salvadoregna.

L’omaggio si è aperto col suo terzo documentario El Eco, concentrato con massima delicatezza sulla quotidianità dei bambini di un villaggio rurale (lontani eredi dei figli del Macario di Roberto Gavaldón), sui loro corpi che fermentano o si intirizziscono insieme a quella terra che rappresenta il calendario della loro crescita e il loro unico orizzonte, sul matriarcato involontario che si prende cura di una comunità in cui anche la morte di un’anziana è un fatto che appartiene tanto alle persone quanto agli animali, agli alberi, alla pioggia. Infatti comincia con l’abbaiare di un cane e finisce con lo scoppio di un temporale questo film per cui il sonoro conta ancor più dei movimenti di macchina, non meno dei gesti dei bambini: veramente ogni loro corpo è un rumore, e Huezo sa farceli sentire tutti.

Diamonds are Forever, lo spazio per gli anti-classici della sperimentazione, è stata inaugurata dal sovversivo e orgasmico W. R. – Mysteries of the Organism del serbo Dusan Makavejev, dalla cui visione si esce con una domanda che, considerati i temi e i tempi, sa di provocazione impudica: quanti film possono stare dentro a un film? Il montaggio anarchico chiaramente gode a scombinare nel collage del ’72 qualunque pretesa di ordine o aspettativa di senso, per mantenere i ritmi delle ammucchiate di idee eversive ed energie orgoniche auspicate tanto dai protagonisti della porzione documentaristica (le iniziali del titolo sono quelle di Wilhelm Reich, primo teorico della liberazione sessuale) quanto dai personaggi inventati (la rivoluzionaria iugoslava che tenta invano di convertire gli uomini al suo catechismo vulvare).

Folgoranti gli accostamenti dialettici tra i vecchi film di propaganda sovietica degli anni Trenta o Quaranta, in cui sul volto di Stalin lacrime esagerate sciolgono il cerone dell’attore che annuncia la morte di Lenin e rassicura i proletari sul futuro dell’URSS, e le immagini di repertorio delle torture subite dagli ammalati prigionieri nei manicomi dell’Est Europa. Proprio perché sinceramente materialista e liberatorio, il film di Makavejev riesce a sbeffeggiare con genialità le inconsistenze ideologiche e il maschilismo dilagante (inseparabile dalle pretese guerrafondaie degli Stati Uniti di allora, incarnati dall’uomo bianco che dorme stretto al suo fucile), ricordandoci che qualunque vera rivoluzione, per non trasformarsi rapidamente in un simulacro imbalsamato di oppressione, deve identificarsi anzitutto con i corpi delle donne.

Il momento più impegnativo e memorabile di Doc Highlights è stato di certo l’anteprima di Wicked Games: Rimini Sparta, il macro-film di tre ore e venticinque nel quale Ulrich Seidl (protagonista la mattina successiva di un’agguerrita masterclass al cinema La Compagnia) ha rimontato i suoi due lungometraggi precedenti. Per il grado di inappellabile adesione alla solitudine dei suoi protagonisti, questo può essere considerato un punto di non ritorno nella filmografia del regista austriaco, nei cui lavori non c’è mai propriamente di niente di bello da vedere ed è in gioco molto del senso di essere vivi, oggi, in questa parte di mondo. Si alternano le giornate di tre uomini alla deriva: un padre vecchio e malato e nazista rinchiuso in una casa di riposo, e i suoi figli, un cantante con un glorioso successo alle spalle, un presente di assoluto squallore e una figlia dimenticata, e un tecnico industriale tormentato dal desiderio di vivere in allegra promiscuità insieme ai bambini.

Inquadrature di straniante precisione geometrica e sequenze girate interamente con la macchina a spalla – i tic stilistici di Seidl – costringono ad ammettere che buona parte dell’umanità si comporta come Richie Bravo ed Ewald e vive in posti intollerabili tipo Rimini d’inverno o la periferia rumena, trascinandosi dove i sogni e l’immaginazione sono talmente bidimensionali da essersi appiattiti sulle fantasie assurde e tristissime delle carte da parati tropicali o floreali. Se nella trilogia di Paradise o nei “docuxploitation” precedenti In the Basement e Safari era ancora vagamente concesso credere ci fosse qualche possibilità di fuga nel fuori campo, qui nonostante l’umorismo ambivalente di certe situazioni non c’è via di uscita dall’alienazione sentimentale e genetica di questi corpi ingombranti, inutili: con Wicked Games Seidl firma un’opera tremenda sull’estraneità dei padri, anche quelli mancati, e sull’inaccettabile scomparsa delle madri, come fosse l’inizio di un censimento di quelli che non riescono a essere né figli né genitori.

In chiusura, poche parole – quelle essenziali – sul film più bello visto all’inizio del Festival: un film di più di trent’anni fa, il primo della retrospettiva cronologica dedicata a Pedro Costa, un regista capace di far sentire il rumore del sangue. Blood, girato sotto l’egida di António Reis, è un miracolo in bianco e nero di trasfigurazione emotiva dei corpi di altri due fratelli, un esordio di soprannaturale ispirazione all’altezza delle proprie radici cinefile (le inquadrature di Bresson, le sospensioni di Murnau, i contrasti del Lang americano): il fondamento tragico per eccellenza, il parricidio, è il cominciamento di un poema sulla notte, i suoi pericoli e le sue promesse, nei cui tagli luminosi si sovrappongono ai volti di un ragazzo di diciassette anni, di un bambino di dieci, di una giovane innamorata i riflessi di un Portogallo incantato e inquietante.

Ma forse tutto il mondo è così, e il cinema di Costa è emerso dalle tenebre del nostro smarrimento per ricordarcelo.