La piccola Sputo (Anna Malfatti) e Richi (Moise Curia) vivono insieme su un camper, ma non sono parenti. Campano di espedienti, lui dice di essere un rappresentante di sementi, ma somigliano più a nomadi in cerca di qualunque sostentamento. Milia (Cosmina Stratan, premiata a Cannes nel 2012 come miglior attrice per il film Oltre le colline di Cristian Mungiu) è una agente della polizia postale, che seguendo le tracce di un pedofilo sul web, s’avvicina alla soluzione del vecchio caso di rapimento di una bimba di 5 anni, Magdalena Senoner. Le strade dei tre protagonisti si intrecciano in un crescendo fatto di minuscoli indizi, fatali errori e naturali turbamenti dell’animo umano.

Isabella Sandri, al suo quarto lungometraggio, sceglie di affrontare un soggetto storicamente schivato dalla settima arte (in particolare quella nazionale) come se il fastidio misto a terrore per l’infanzia tradita fossero troppo ingombranti per dar loro voce attraverso le immagini. Come se nessuno se la sentisse di trattare seriamente e con coscienza il tema della pedofilia per una forma di vero disinteresse o solo per mancanza di coraggio. Anche per questo Un confine incerto è un film che ha in primis il grande merito di squarciare il velo mediatico di ipocrisie e falsi pudori, con delicatezza raffinata, senza mai trascendere in nessuno dei difetti tipici di altri film (tutti a parte Mystic River) che hanno provato a parlare delle stesse cose: scandalismo, voyeurismo o melodrammaticità.

La regista riesce a rendere visibile l’invisibile e lo fa filmando questo confine incerto tra il bene e il male, l’amore e il non amore, la luce e il buio. Riesce a costruire con sapienza quasi due ore di film sul tema, senza concedere nemmeno una singola inquadratura a curiosità morbose o parafilia. È dai testi delle chat sul suo blog che si svela la presenza di un rapporto particolare tra Richi e Sputo, non dalle immagini: i particolari anatomici sono elusi, il corpo della bambina non è violato dal film, la comunicazione dell’anomala intimità fra i due avviene tramite una forma di osmotica allusione.

I vestiti di Sputo sono sempre più grandi di lei: la vestaglia fiorata delle prime scene, la felpa grigia enorme indossata dal cappuccio, o il bikini fucsia da donna sul set di uno dei “suoi” video, vestiti usati quasi come significante di un messaggio implicito di inopportunità. Sputo fa cose che, come i sui abiti, sono più grandi di lei.

La colonna sonora è costruita su una base di rumori di fondo (metallici) che disturbano la percezione del mondo circostante, così come il mondo di Sputo è disturbato dalle azioni che fa per compiacere al suo adulto di riferimento, colui che dice di essere il suo ragazzo e di averla salvata da chi l’abbandonò. Via via che l’ombra del male prende forma nel film la colonna sonora si infittisce e si nutre di suoni spaventosi e fantasmatici, suoni provenienti da un buio profondo, dalle profondità di un bosco inesplorato. Oltre al suono le immagini giocano sul contrasto tra le numerosissime riprese en plain air in piena luce e quelle girate in interni bui e minacciosi, luoghi squallidi in penombra, case abbandonate, pareti dagli intonaci cadenti, tubi pericolanti, scale scalcinate e senza parapetti.

I primi piani stretti sullo sguardo disarmato e disarmante della bambina si oppongono ai piani medi sui discorsi sconnessi di Richi (un eccellente e credibilissimo Moise Curia, che pare uscito dalla scuola garroniana, prepotentemente intriso di una vivace somiglianza con l’Elio Germano migliore). Il giovane che dovrebbe prendersi cura di lei, chiede invece spesso alla bambina “di darsi da fare per un futuro insieme e per dargli una mano” rendendosi così colpevole del delitto peggiore contro l’infanzia che è la pretesa di ricevere amore da un bambino anziché impegnarsi ad amarlo. È così che Sandri tesse la sua rete fitta di sensazioni per comunicarci una storia difficile da raccontare, una storia che resta avvolta da una patina di protezione indulgente, un cellophane che avvolge i bambini (come nelle immagini del film) per non restituirceli nella nuda crudezza di ciò che a volte il mondo gli riserva, ma proteggendoli da ciò che non si potrebbe dire e infatti non si dice, non si potrebbe fare ma, puntualmente, si fa.

La società risponde a questo stimolo come il carnefice stesso della bambina nel film: “lo sai che mi dà fastidio sentirti piangere” le dice dopo averla maltrattata. Il peggior insulto ad un’infanzia abusata, l’esigente invito a restare zitti e buoni. Per fortuna capita che ci siano adulti che hanno gli occhi per guardare quello che succede spesso alla luce del sole, o nella porta accanto. Adulti capaci di creare un contatto visivo con gli occhi spaventati di chi subisce e di accompagnarli fuori dal bosco oscuro del loro abbandono, riconoscendo in essi la parte più tenera di noi e tendendogli una mano portatrice di salvezza.

“Il tempo aspetta noi, è lì per noi e quando noi siamo pronti lui è lì” così dice la psicologa (cameo di Valeria Golino) a Milia per consolare la sua estrema sensibilità al caso. Lo stesso diremmo noi per questo film, quando saremo pronti per vederlo, lui è lì che ci aspetta. Non sarà facile ma sarà stato importante.