Forse è cominciato tutto con Racconto di Natale, dove Arnaud Desplechin la battezza con un nome titanico: Junon. Come la moglie di Giove, la dea di tutte le donne. Oppure, seguendo un’altra radice, la “giovinezza”. L’eterna giovinezza. Una donna e un mistero, parafrasando il titolo del giallo cinefilo di François Ozon, un altro autore che ha contribuito a monumentalizzarla. Potiche, la bella statuina che incarna tutta la Francia degli ultimi cinquant’anni e tutto il cinema attraversato, dominato, vissuto da Catherine Deneuve. Ruoli che rappresentano il passaggio della diva a una dimensione svincolata dall’incombenza di essere altro all’infuori di una variante di se stessa: un film con Deneuve è sempre un film su Deneuve.
Immagine inevitabile di una regina (Asterix & Obelix al servizio di Sua Maestà), è tra le poche della sua generazione a occupare ancora posizioni da protagonista (Elle s’en va, Piccole crepe, grossi guai, Quello che so di lei) e da comprimaria si concede il lusso di rivendicare una sfrontata modernità, come accade quando amoreggia con un gorilla in Dio esiste e vive a Bruxelles. E se in Potiche collimano tante suggestioni di una carriera sconfinata (gli ombrelli di Cherbourg, il ménage con Gérard Depardieu, la vita segreta della bella di giorno…), in Le verità il meccanismo si fa ancora più sofisticato e ambiguo, portando ai confini dell’auto-fiction la materia romanzesca, qui trasfigurata anche in un memoir pieno di omissioni, reticenze, revisioni della realtà e che elude i fantasmi della vita (dietro la giovane attrice morta prematuramente non è difficile scorgere la sorella Françoise Dorleac, demoiselle de Rochefort).
Interpretando Fabienne, ipotesi di se stessa, Denueve, gigantesca e oltremodo compiaciuta, impone l’idea che il film sia anzitutto un saggio su di lei. Più o meno ciò che succede al cospetto dell’opera di Claude Lelouch, infinito ritorno autoreferenziale che raggiunge l’apice in Parliamo delle mie donne e soprattutto I migliori anni della nostra vita, dove ritroviamo Anouk Aimée, presenza preziosa perché ormai occasionale, e l’infermo Jean-Louis Trintignant, in carrozzella come in Happy End dopo una vita in corsa (Il sorpasso, lo stesso Un uomo, una donna, la passione per il rally).
È impossibile non vedere le prove di questi attori alla luce della loro costellazione di ruoli passati. E un po’ quel che capita con i tramonti di Jean Gabin, Jeanne Moreau e Simone Signoret, quest’ultima annoverata da Fabienne/Deneuve tra le grandi attrici con nome e cognome che iniziano con la stessa lettera (Greta Garbo, Danielle Darrieux, Michèle Morgan). E il contrario di Brigitte Bardot, (non) citata con algida perfidia nello stesso gruppo, che il cinema l’ha lasciato all’apice dello splendore, restando per sempre “la donna creata da Dio” del classico diretto dall’allora marito Roger Vadim, poi compagno anche di Deneuve.
GG, DD, SS, BB… e anche MM, ovvero Marcello Mastroianni, grande amore della diva, di cui ormai intercetta sempre più il supremo spirito sornione: l’indolente leggerezza di un corpo mutato dal tempo ma che continua a incantare grazie all’ineguagliabile carisma. Dal ritorno felliniano in poi (La città delle donne), Mastroianni è il monumento di se stesso: sotto l’aria svagata e vellutata, Oci ciornie, La vedova americana, Prêt-à-Porter riproducono tante vite ma una sola morte, parafrasando uno degli ultimi suoi film per la regia di Raúl Ruiz (che con Deneuve ha peraltro cercato il tempo ritrovato).
Per di più con il supplemento d’autore, Sylvester Stallone (SS) è un altro che non può affrancarsi dalla propria vita cinematografica: per motivi diversi, i due Creed e Rambo: Last Blood sono autoriflessioni su una carriera che spinge le icone dell’attore su versanti inediti pur nel medesimo orizzonte. In altri termini, anche il lavoro di Robert Redford (RR) agisce in questa prospettiva: nel testamentario Old Man & the Gun si costruisce il passato del protagonista, artista della menzogna, con i pezzi di quello dell’attore sul grande schermo (La caccia come flashback del protagonista). Ai film non serve la verità se non per piegarla ai propri bisogni. Se la verità può essere declinata solo al plurale, allora Denueve porta le verità della sua vita cinematografica. Non l’imitazione della vita ma la sublimazione attraverso un atto poetico per ripensare la realtà. Una lezione di recitazione, come quella impartita con somma seccatura alla giovane attrice-rivale in preda all’improvvisazione.