In Un homme marche dans la ville Marcello Pagliero, l’italiano di Saint-Germain-des-Prés, racconta attraverso l’espediente di un triangolo amoroso la disillusione, l’insoddisfazione e la precarietà di un’intera classe sociale, quella dei lavoratori portuali e di una città, Le Havre, all’indomani della fine della seconda guerra mondiale.

Il dramma privato che il regista mette in scena ha per protagonista una coppia decisamente mal assortita: Laurent (interpretato da Robert Dalban), lavoratore portuale collerico, amareggiato e incapace di amare, che affoga nel vino le sue difficoltà coniugali e professionali, e Madeleine (Ginette Leclerc), moglie sessualmente frustrata che cerca di evadere dall’insoddisfazione del proprio matrimonio attraverso l’assurda e irrefrenabile passione per Jean (Jean-Pierre Kérien), amico di famiglia e capocantiere che, a sua volta, sembra ricambiarla solo carnalmente. La morte quasi causale di Laurent, precipitato nel grande bacino di carenaggio, mette in moto una serie di voci circa la responsabilità di Jean, sospetti condivisi da colleghi, amici e poliziotti che indagano sull’omicidio, e fortemente alimentati dalla gelosia di Madeleine che, bruscamente rifiutata dal suo amante, decide di denunciarlo alla polizia.

Al di là della vicenda amorosa, lo sguardo di Pagliero si sofferma ad osservare, con occhio oggettivo e mai critico, la vita quotidiana dei portuali di Le Havre: il lavoro delle squadre, il corporativismo (eloquente in tal senso la scena iniziale con gli altoparlanti che annunciano i criteri di assunzione), il ruolo dei capicantiere e del padrone che controlla e condanna, così come quello del sindacato attraverso la vicenda del povero uomo di colore malato di tubercolosi che rifiuta di far valere i suoi diritti e che morirà dopo una breve agonia. 

Un ruolo importante nella costruzione narrativa è affidato al bar di Albert (Yves Deniaud), una sorta di confessionale pagano e luogo di ritrovo dei lavoratori portuali che, dopo una dura giornata di lavoro, cercano di dimenticare le proprie frustrazioni tra un bicchiere di whisky e uno di cognac. La rappresentazione di una classe operaia dedita all’ubriachezza come unica valvola di sfogo rappresentò per il film di Pagliero un grande ostacolo alla distribuzione. In molte città francesi la proiezione fu sospesa a causa delle proteste della popolazione, della municipalità e dei sindacati, e lo stesso Partito Comunista insieme al sindacato dei lavoratori portuali, che inizialmente ne aveva appoggiato la realizzazione, criticò duramente la rappresentazione ignobile dei portuali di Le Havre.

Lo sguardo documentaristico di Pagliero si sofferma non solo su una classe sociale, ma sulla stessa città di Le Havre che, all’epoca delle riprese, si presentava devastata dai bombardamenti del 1944. Tutta la vicenda si sviluppa sullo sfondo di una città rasa al suolo che cerca di riemergere dalle sue macerie: rovine, binari ferroviari, terreni abbandonati, enormi capannoni, bacini e il rumore assordante del lavoro in cantiere sottolineano il sentimento di disillusione che accomuna tutti i personaggi del film. Ad accompagnare lo spettatore attraverso le macerie fisiche di Le Havre e, soprattutto, quelle interiori dei protagonisti del dramma è il capocantiere Jean, "l’uomo che cammina per la città", osservatore attento e indifferente che “nulla sa e nulla vuole sapere”.