Una nave, un oceano e una balena bianca – pardon – una tavola, un oceano e l'onda perfetta. Per John Milius il surf è molto più di una moda o di uno sport: è un'ossessione. Surfista lui stesso, inserisce prontamente una sua foto tra i titoli di testa di Un mercoledì da leoni, fiero com'è di poter dichiarare: “Io c'ero”. Da un punto di vista cinematografico, cavalcare le onde è un'esperienza di enorme fascino, che ha sedotto macchine da presa almeno dal 1906 – anno del corto Edison Surf Scene, Waikiki, Honolulu – fino all'epoca del digitale, visto che all'inizio degli anni Duemila proprio il surf ha ispirato Nick Woodman nella creazione della GoPro, l'action camera pensata per le situazioni estreme.
Il motivo di tale fascinazione va principalmente attribuito all'acqua, elemento già dotato di un cinetismo naturale, dunque di fotogenia. Infatti, in base a una delle formulazioni di Jean Epstein, poi ripresa da Gilles Deleuze, la fotogenia è “l'immagine in quanto 'maggiorata' dal movimento”: nel caso dell'acqua, la qualità fotogenica emerge poiché la meccanica dei fluidi incontra la meccanica della cinepresa, generando un movimento al quadrato. Esemplare di una simile sensibilità in ambito americano è il corto Surf and Seaweed (1931) di Ralph Steiner, ma simili osservazioni possono essere riferite anche al film di Milius.
A livello pre-linguistico e precognitivo, l'acqua gioca un ruolo cruciale nel momento in cui si prenda in considerazione l'approccio delle neuroscienze, dato che l'attività dei neuroni specchio permette allo spettatore la cosiddetta simulazione incarnata (embodied simulation). Secondo Adriano D'Aloia, il ricorso a scene acquatiche provoca l'enwaterment (nel senso di water embodiment), ovvero una situazione in cui si stabilisce un'analogia tra la trasparenza dell'acqua e l'atto della visione, e si genera un'esperienza immersiva per lo spettatore, che si trova coinvolto all'interno di uno spazio sensoriale non soltanto visivo ma anche aptico, come se fosse a mollo. Di qui l'importanza della spettacolarizzazione e dunque di un formato panoramico, come quello di Un mercoledì da leoni, che permette di enfatizzare l'andirivieni delle onde.
Nel film di Milius, l'acqua è trattata come un vero e proprio personaggio, i cui turbamenti sono cruciali per lo sviluppo narrativo. Stilisticamente, si tratta di un approccio da western (il riferimento a Sentieri selvaggi è esplicito), imperniato sul rapporto tra uomo e spazio, anche perché la vicenda si svolge in California, vale a dire all'estremo ovest. L'oceano è sentito come una nuova frontiera e la spiaggia è uno spazio liminare in cui vengono rinegoziati i confini tra natura e cultura, tra wilderness e civilization. Matt, Jack e Leroy assumono levatura di eroi, sono statue di marmo su tavole di legno: una volta varcata la soglia-spiaggia, entrano nel mito. Tale dimensione mitica si regge sull'incontro tra acqua e cinema, poiché si stabilisce un binomio che trascende il paradosso del presente. Così come il moto delle onde è continuo ma muta incessantemente, il tempo mitico del surf viene colto grazie alla riproducibilità dell'istante cristallizzato su pellicola, ma la vicenda non può che restare subordinata al tempo lineare della storia.
Certamente il respiro epico e il ricorso a una narrazione classicheggiante sono espressione di una poetica della nostalgia che finisce per nobilitare clamorosamente il passato. Non è spocchia da surfisti, ma il diretto effetto dell'estetica iperrealista: Un mercoledì da leoni è un film sui surf film che, nel momento in cui li riproduce, li critica, proclamandosi più autentico dell'autentico. In questo senso, la sfida di Milius consiste nell'integrare i due grandi filoni del surf cinema, quello dei beach party film e quello dei pure surf film; i primi dichiaratamente di finzione, gli altri di stampo documentaristico.
I beach party film sono quasi una settantina di exploitation film hollywoodiani che ruotano attorno a bikini e bicipiti con il surf sullo sfondo, pellicole di intrattenimento per adolescenti bianchi middle-class lontani dagli sguardi dei genitori. Si può dire che nascono con Gidget (1959) di Paul Wendkos e continuano ad essere prodotti fino alla seconda metà degli anni Sessanta, mentre nello stesso periodo scoppia il surf craze e spopola la surf music. All'epoca, la comunità dei surfisti aveva reagito con sdegno, sentendosi derubata di un'aura di trasgressione, per quanto il surf fosse comunque sempre stato uno sport consumistico praticato da bianchi middle-class.
Con pure surf film si intendono invece pellicole nate come home movie negli anni Trenta e approdate ad un ristretto circuito four walls a partire dagli anni Cinquanta. Avevano lo scopo di restituire più fedelmente possibile l'esperienza del surf ed erano pensate per gli appassionati. Per quanto, soprattutto nel primo periodo, la qualità fosse discutibile, le inquadrature avevano una certa audacia, tanto che per garantire una distanza ravvicinata le cineprese venivano anche portate direttamente in mare dopo essere state rese impermeabili in modi alquanto creativi. Erano film che raccontavano la caccia ad onde sconosciute e la scoperta dell'ambita onda perfetta (erano cioè surfari, surfing safari), mostravano la tecnica dei vari sportivi e il surf come stile di vita, fatto di eterna giovinezza, eterne vacanze e uno spirito da pionieri della frontiera.
Il caso più vistoso è The Endless Summer (1964) di Bruce Brown, distribuito anche dalla Columbia. All'inizio, questi film erano privi di sonoro, per cui venivano commentati da un presentatore durante la proiezione. C'era insomma una voce fuori campo, proprio come in Un mercoledì da leoni o come nel 'film nel film' Sogni liquidi. Alla fine degli anni Sessanta, i pure surf film abbracciano la controcultura ma, per così dire, non sono abbracciati da tutti i surfisti: inizia il periodo del soul surfing, con pellicole quali Pacific Vibrations di John Severson (1970) o Crystal Voyager (1973) di David Elfick. Dalla metà degli anni Settanta, poi, si fa strada il surf professionale e prevale un approccio competitivo, come in Free Ride (1977) di Bill Delaney. Quasi superfluo sottolineare come tutte queste fasi siano riprese in Un mercoledì da leoni, ma non è tutto. Milius, che ha estremamente a cuore una rappresentazione autentica dell'oceano, per la realizzazione del film chiama a raccolta alcuni professionisti dei pure surf film: Greg MacGillivray, regista di Five Summer Stories (1972), George Greenough, operatore per Crystal Voyager e Dan Merkel, direttore della fotografia di Free Ride. La meticolosità con cui si propone di raccontare il surf è chiaramente legata ad un aspetto autobiografico, che comprende il sogno del grande mercoledì. In un certo senso, Milius si pone come un novello Melville, eccitato da un'esperienza totalizzante e pronto a tramandarla.
Come Moby Dick, amatissimo dal regista, anche Un mercoledì da leoni racconta di una duplice caccia: se nel romanzo Achab dà la caccia alla balena e il narratore quella balena cerca di catturarla sulla pagina, in Un mercoledì da leoni i protagonisti danno la caccia all'onda perfetta e Milius cerca di restituirla su pellicola. All'epoca dell'uscita nelle sale il film è riuscito ad alienarsi sia pubblico che critica, salvo poi diventare un cult con il passare del tempo. Ancora oggi il giudizio sul regista è contrastante, tanto che alcuni lo chiamano reazionario, altri anarchico. Non è questo il punto, ovviamente, perché il nome giusto per Milius è un altro: chiamiamolo Ismaele.