“Vado a vedere un film Marvel.” Se al telefono mia madre dovesse chiedermi cosa andrò a vedere al cinema stasera, non direi Doctor Strange nel multiverso della follia, ma “un film Marvel”, con tanto di trademark. E mia madre, o chiunque non sia familiare con l’universo dei cinecomic cosiddetti, capirebbe. Capirebbe che si tratta di un cinema spettacolare fatto di ammiccamenti, citazioni, easter egg, personaggi che si incontrano, si scontrano e si moltiplicano, passandosi informazioni da un portale spazio-temporale all’altro, infrangendo e riscrivendo canoni e produzioni. Una galassia ormai troppo grande per immergervisi senza un minimo di preparazione, anche psicologica. E non si parla più di una (anche timida) conoscenza dell’archetipo fumettistico, ma del bisogno di immagazzinare una serie di informazioni “propedeutiche”, nel vero senso della parola. 

È per questi motivi che Doctor Strange nel multiverso della follia non può essere visto soltanto come il sequel di Doctor Strange (Scott Derrickson, 2016), ma come episodio dark-fantasy di una continuity tentacolare, conseguenza diretta delle tre “fasi” del Marvel Cinematic Universe (ventitré film) e parte integrante della cosiddetta “fase quattro”: cinque film già usciti, altri sei programmati, con serie e miniserie annesse. Numeri da capogiro che rischiano di scoraggiare chiunque avesse voglia di varcare la soglia dell’universo Marvel Studios da neofita, ma che non faticano a fidelizzare praticamente nessuno. Neanche mia madre.

La gallina dalle uova d’oro è Kevin Feige, che continua a produrre e supervisionare un progetto cinematografico mastodontico affinché il meccanismo resti ben oliato e coordinato nella sua complessità. In questa scacchiera di pratiche produttive, anche quella del “regista come marchio” ha un suo posizionamento studiatissimo. Ed è qui che entra in gioco Sam Raimi.

Nume tutelare dell’horror comedy, padre del cinecomic contemporaneo, regista tanto estremo, cupo e visionario quanto “pop”, amatissimo dai nerd di tutto il mondo — e anche da chi scrive. La sua saga di Spider-Man (2002-2007) è stata ripresa con abile mossa meta-produttiva pochi mesi fa in Spider-Man: No Way Home di Jon Watts, ed è quindi un tempismo perfetto a portarlo nel Marvel Cinematic Universe. E proprio dietro la macchina da presa di un film attesissimo come il secondo capitolo di Doctor Strange, dato il gran rifiuto di Scott Derrickson per “divergenze creative”. È quindi del tutto fisiologico che il suo ritorno al cinecomic venga salutato con una certa aspettativa. E Kevin Feige lo sa. 

Ma Mr. Feige non può nemmeno sacrificare la sua formula vincente sull’altare di un’insolita carte blanche. Quelle sono cose che può permettersi il sodalizio rivale Warner-DC, affidando a James Gunn i guizzi (The Suicide Squad, 2021) che il tentativo di un universo “esteso” non è riuscito a celebrare. Il risultato è un film spaccato a metà: da una parte Doctor Strange nel multiverso della follia si palesa come lo sforzo produttivo di tenere in piedi un crossover colossale, dall’altra come il film di Raimi, divertito (più che divertente), che si prende anche timidamente gioco della mitologia Marvel, ridicolizzando alcuni personaggi e facendo leva sull’aspetto psicotico dei (per brevità chiamati) supereroi.

La scelta di inanellare una serie nutrita di “spiegoni” è tanto pesante quanto necessaria per collocare questo film nella giusta linea temporale, se si vuole recuperare almeno un po’ il filo della narrazione. Una storia che cita gli eventi di Avengers: Infinity War ed Endgame, di Spider-Man: No Way Home, della serie WandaVision e, perché no, anche What If…?, se sentiamo il bisogno di essere filologici. Si ritrovano vecchie conoscenze (Elizabeth Olsen nel ruolo borderline di Wanda Maximoff-Scarlet Witch e un sempre più rilevante Benetict Wong) e se ne fanno di nuove (Xochitl Gomez, la protégé America Chavez), preparando il terreno per calcolatissime improvvisate (no spoiler!), come un congegno a orologeria costruito per mandare in solluchero i fan.

D’altro canto, ci sono parti in cui Sam Raimi preme finalmente il piede sull’acceleratore e imbastisce trovate bizzarre che donano un’anima pittorica anche alla fredda CGI. Volti spezzati, mostri lovecraftiani, morti viventi, non-luoghi caotici e maledetti, beniamini che diventano letali e grotteschi anti-eroi: in fondo, tutte piccole e grandi auto-citazioni del suo cinema più popolare, da Evil Dead a Drag Me to Hell, passando per Darkman e Army of Darkness.

Tra i tanti generi masticati dalla Marvel annoveriamo l’horror. Ma la sensazione è che quei gradevolissimi elementi che rendono lo sguardo di Raimi vivo, pulsante e riconoscibile — il “regista come marchio”, appunto — siano messi lì a bella posta per catturare l’applauso di un certo tipo di pubblico, lasciando un retrogusto di soffocata libertà. Come se ce li aspettasse, come se li si esigesse, per poter finalmente dire “è proprio un film di Sam Raimi.” Elucubrazioni a parte, questi elementi funzionano bene, e alcuni meglio di altri. Come certe inquadrature angolari, la battaglia “musicale” tra Doctor Strange e la sua variante (rafforzata dalla colonna sonora del fido Danny Elfman: sempre lui, ma con qualche asso nella manica in più dopo l’exploit industrial rock del suo album solista) o l’uso modesto del trucco prostetico. Prevedibilmente c’è posto anche per un cameo di Bruce Campbell, quindi non c’è da preoccuparsi: è proprio un film di Sam Raimi.

Ma forse la vera abilità del Nostro sta nel risemantizzare le caratteristiche dei personaggi principali, esaltando le alienazioni di Benedicht Cumberbatch nelle varie versioni del Doctor Strange e di Elizabeth Olsen come Scarlet Witch, la vera antagonista del film (in odor di Carrie nei momenti più riusciti). Entrambi perdono i connotati di eroi — di Avengers! — tout court guadagnando un po’ di inquietante follia: del resto, più che di supereroi, stiamo pur sempre parlando di un mago e di una strega. Eppure la madness citata nel titolo sembra non essere tanto rilevante quanto il Multiverso, la nuova ossessione Marvel per cui tutto è effimero e impalpabile. E gli intuibili e intriganti discorsi sul potere e su un senso relativo di giustizia, accompagnati da scelte visive tragicomiche, sono frenati da una sorta di istituzionalizzazione, la metà che tiene sapientemente a bada il desiderio di un’indipendenza narrativa. 

Doctor Strange nel multiverso della follia è un incubo intertestuale che porta la firma riconoscibile di Sam Raimi: un buon film, sia chiaro, che si intreccia agli altri capitoli del Marvel Cinematic Universe con uno sguardo che non possiamo far altro che accogliere come una boccata d’aria fresca rispetto alle produzioni più recenti. Ma nel suo tentativo di sovvertire la messa in scena, non possiamo fare a meno di osservare quanto compromesso sia necessario a bilanciare un diktat transmediale tanto amato quanto appiattito nel suo successo.

E quelle dosi misurate di drammaticità e di comica tetraggine, quella strangeness che cercavamo in un film sul Doctor Strange, non riescono a scrollare di dosso la sensazione che tanta meraviglia per un film Marvel firmato Raimi sia più indotta e desiderata che esibita. Come la magia di un grande illusionista, chiamato a giocare ancora una volta con la nostra nostalgia.