Prodotto dalla Ciby 2000, Twin Peaks – Fire Walk with Me fu un clamoroso insuccesso critico e commerciale e ricevette una tiepida accoglienza a Cannes nel 1992. Come in una sorta di spirale negativa – figura stilistica tipicamente lynchiana – il regista attraversò il suo annus horribilis tra tentativi frustrati di nuove serie tv (dirige la prima puntata di On the Air, poi si dedica a Motel Room, una trilogia ambientata a New York) e riscontri negativi con i fan di vecchia data.

Probabilmente non era stato sin da subito chiaro che l’intento di Lynch fosse di decontaminare Twin Peaks, espungendo i germi umoristici e i toni da feuilleton mistico, per ripristinare le linee narrative incentrate sull’incubo lisergico narrato nella serie iconica. In Fire Walk with Me esplode il corpo dolente di Laura Palmer, affogato in ghigni beffardi, movenze esasperate e tic nevrotici, mentre il contesto esterno si richiude, stringendosi intorno a una selva di correlativi oggettivi del dolore (il vestito rosso della donna all’aeroporto, l’indizio infilato sotto l’unghia del cadavere, l’anello di Teresa Banks) e apparizioni che materializzano le immagini distorte della serie TV originaria.

Il fuoco sacro dell’irrazionale procede a sbalzi, con enfasi simbolista, cercando di catturare la realtà oltre le apparenze, scovando l’incubo domestico (prefigurato nel corto del 1971 The Grandmother) che si infiltra come un parassita nel brutto sogno della cittadina (già profetizzato in quel di Lumberton in Velluto blu). In Fire Walk with Me assistiamo a una proliferazione dei temi cari al regista di Missoula in cui il rimosso del tubo catodico torna a infestare il grande schermo, lungo traiettorie schizofreniche che ricreano le allucinazioni di un mondo non troppo lontano, terminato nel giugno del 1991. Non più un cerchio, dunque, né la profanazione di un’opera di culto ancorata alle sperimentazioni seriali degli anni Novanta, ma una rifrazione ricognitiva che cataloga tutto il visibile e tutto ciò che appare come “un sogno dentro un sogno”.

Nonostante l’andamento narrativo non appaia poco lineare – il prologo in cui si narra di Teresa Banks, la prima vittima di Bob, poi l’ultima settimana trascorsa da Laura prima del brutale omicidio – a ramificare il plot in una serie di sedimenti onirici ci pensa l’evocazione lynchiana, che permette di tornare sul luogo del delitto guidandoci attraverso i titoli di testa, la nebbia catodica iniziale e l’esplosione di un vecchio televisore, quasi a farci capire che i meccanismi insiti nella serialità originaria dovranno rovesciarsi in un’implosione carica di tensione metafisica e saranno anticipatori del caos atomico di White Sands nell’episodio 8 di Twin Peaks – The Return.

Tutto ciò non è che l’ennesimo gioco di rimandi e autocitazioni che possiamo ritrovare nelle opere di David Lynch; nel film in questione, pensato inizialmente con Kyle MacLachlan nei panni del protagonista, l’elemento di novità è la deflagrazione del corpo di Laura Palmer, ossessione mortifera che funge da moltiplicatore di suggestioni, corpo sessualizzato dal padre-padrone Leland, mente oracolare in piena congiuntura astrale con l’agente Cooper e schiaffo all’ american dream, ormai ridotto a un brandello di sogno. Gli ultimi giorni di vita di Laura sono coperti dal secretum e lei, figura della malinconia lunare, diventa il tramite attraverso cui è possibile entrare in contatto con un aldilà fatto di nebbia e oggetti magici, profezie e simboli misterici.

Quell’oscuro oggetto del desiderio dato in pasto alla cittadina silente, è sventrato in mille frammenti di immagini e visioni strabordanti che richiamano alla mente un valzer onirico tra cielo e terra.