"Skreeeesh". La risata di Shane MacGowan sembra fare il verso alla moka quando l'acqua è salita e non c'è più niente da filtrare. O — decisamente più appropriato — a un fusto di birra quando è in procinto di esaurirsi. E più della musica dei Pogues — la band anglo-irlandese che per prima ha unito il celtic folk a un fortunatissimo e trasversale approccio punk — è proprio il suono sardonico e fuori dal mondo di quella risata che scandisce Crock of Gold: A Few Rounds with Shane MacGowan di Julien Temple.

Un film che nel manifestarsi senza remore come atto di devozione riesce a farsi esperimento epico — e non in termini di spettacolarità. Sì, perché l’epicità dell’impresa sta tutta nel tentare di dispiegare la vita di Shane MacGowan: un’esistenza folle, incredibile, irreale e per molti irrealizzabile (nel senso di “incontenibile” in un principio di consapevolezza) nel suo sfidare la gravità degli eventi. Un’impresa epica, quasi picaresca, se si pensa che l’unico modo per farlo (senza snaturamenti di sorta) sia affidarsi completamente alla sua ostilità.

Insomma, un film su Shane MacGowan non può essere un’impresa facile. Non deve. Julien Temple, che dal mockumetary (o meglio, lo stravagante epitaffio) su Malcom McLaren e i Sex Pistols — The Great Rock ‘n’ Roll Swindle, 1980 — si è fatto strada come autentico musicofilo del rock inglese, è forse l’unica persona in grado di far funzionare questo film. Non tanto per la manciata di incursioni finzionali alle sue spalle (piuttosto trascurabili, se escludiamo lo sfortunato e notevole Absolute Beginners), ma per l’expertise documentarista, quella che è riuscita a inquadrare la rivoluzione punk come momento trasformativo decisivo dei costumi sociali inglesi. Basti pensare al (bellissimo) documentario sui Sex Pistols (e chi se no?), The Filth and the Fury (2000), o a Joe Strummer: The Future Is Unwritten, sentita dedica all’amico, oltre che colonna portante dei Clash, presentata al Sundance nel 2007.

Ma come approcciarsi a Shane MacGowan? Come tentare di raccontare la parabola celebrativa e distruttiva di chi si è fatto al contempo icona, stereotipo, tradizione e ribellione? Figlio del repubblicanesimo e della diaspora irlandese, Shane è una scheggia impazzita che trova a Londra, nel bel mezzo della rivoluzione musical-popolare del 1976, il motore poetico di una rabbia antica. Impossibile da moderare, anche sfruttando gli stratagemmi del mezzo filmico. Qualcuno l’ha già detto: “Shane’s gonna Shane.” E Julien Temple lo sa, lo sa molto bene.

La chiave non è tanto mettere ordine nella vita di una persona che ha sempre rifuggito l’ordine come una iattura, ma cavalcare il caos di cui si fa portavoce per inquadrarlo in diversi contesti temporali, politici e sociali. Attraverso una sorta di bricolage e découpage di materiale d’archivio, frammenti di registrazioni, ricostruzioni filmiche e animazioni, Julien Temple è pienamente consapevole del fatto che non può fare altro che tenere il passo di un animo irriducibile. L’animo di chi, al contrario di quel che si racconta da anni, non ha mai sentito il bisogno di fuggire o di estraniarsi, perché è stato sempre impegnato a cercare il tesoro alla fine dell’arcobaleno. La fama? Il successo? I soldi? La risposta è ovvia, o forse no: la felicità. Perché siamo tutti Shane MacGowan e, al contempo, nessuno può esserlo.

La parte biografica di Crock of Gold ci dispiega con dovizia di particolari l’infanzia di Shane a Tipperary e gli anni trascorsi come figlio di emigranti irlandesi tra le Home Counties, Brighton e Londra. L’alcool (che ha cominciato a bere all’età di cinque anni), la droga, la miccia punk e quel famigerato concerto dei Clash, quando il suo volto grondante sangue finì sulle pagine dei giornali locali con il titolo “Cannibalism at Clash gig.” La prima band (i Nipple Erectors, poi The Nips) e, naturalmente, i Pogues, un vero miracolo di violenza e bellezza.

Perché la storia di Shane, sotto tutti gli evidenti contrasti, è a tutti gli effetti una storia di bellezza, la tenerezza manifesta dentro una voce graffiante, come una ninna nanna cantata da ubriachi. Il sentimento di orgoglio e rivalsa in terra nemica-amica, l’ardore misto all’alienazione costretto in canzoni che oggi risultano semplicemente senza tempo. Tutto questo grazie a una forza antica e a un’identità storica, sociale, geografica, fortunatamente sabotate, come spesso accade, da nostalgie, idealizzazioni e promesse.

La bellezza è lì, in quell’antinomia di denti marci (il tratto distintivo di Shane, almeno fino a una recente e insperata ricostruzione) e liriche che colgono paradiso, inferno e tutto ciò che c’è in mezzo. Come Fairytale of New York, il più grande successo dei Pogues (datato 1988 e cantato insieme alla più che compianta Kirsty MacColl), che inizia come una dolcissima canzone di Natale, prosegue con una sequela di insulti e finisce con una dichiarazione di impotenza. Come Shane sa liquidare molto bene: “i testi parlano sempre di risse, bevute, vita e morte. Le cose che fanno tutti.” E la musica dei Pogues finisce per rappresentare tributo e offesa, sacralizzazione e iconoclastia. Ma oltre all’impatto popolare e commerciale, c’è la parabola di Shane subita da chi non poteva tenere il ritmo delle sue dipendenze. Il naufragio triste e felice di un personaggio che si afferma e nega insieme.

Paradiso, inferno e tutto ciò che c’è in mezzo, appunto. E in mezzo alla storia di Shane c’è (ovviamente) un pub, il punto di ritrovo degli affetti e degli amici che Julien Temple riesce a coinvolgere nel film. Non per estirpare qualche informazione in più dalla bocca di Shane (che, chiaramente, non vuole essere intervistato), ma per farli scontrare con la sua personalità. L’adorata e adorante moglie Victoria, Johnny Depp, Bobby Gillespie dei Primal Scream: tutti chiamati a farsi un bicchiere per tentare maldestramente di mettere ordine nei suoi pensieri. C’è anche spazio per Gerry Adams dell’IRA (dicevamo, il nazionalismo e l’orgoglio irlandese): ma tutti, nessuno escluso, sono amabilmente destinati a fallire. Non resta altro che una risata grottesca (“skreeeeesh”), lì a ricordarci che romanticizzare troppo la figura di Shane sarebbe un errore.

Oggi che Shane ha lasciato questo pianeta dopo mille travagli di salute (iniziati con una brutta caduta nel 2015), Crock of Gold diventa un testamento due volte più prezioso. L’unica testimonianza possibile sul tradizionalista più ribelle di tutti, firmata dal più punk dei registi. Ed è un caso beffardo che la morte di Shane arrivi a pochi mesi da quella di un’altra icona pop irlandese, Sinéad O’Connor, che con Shane collaborò e si scontrò nel tentativo di sottrarlo dal tunnel dell’eroina.

In un documentario uscito quest’anno — dedicato ad altre due figure irlandesi di spicco — c’è una scena che dice tanto dell’importanza di Shane MacGowan nella musica contemporanea. In Bono & The Edge: A Sort of Homecoming, un film senza pretese realizzato per promuovere un po’ di uscite collaterali a nome U2 e Bono Vox, c’è un momento in cui altri musicisti (Glen Hansard, Grian Chatten, Imelda May, Bono e The Edge, appunto) suonano A Rainy Night in Soho dei Pogues.

È un momento bellissimo che dura troppo poco (in un film decisamente troppo lungo per i suoi propositi celebrativi). Alla fine del brano, David Letterman dice: “Questo dovrebbe essere l’inno nazionale irlandese.” E forse è solo l’esagerazione di un conduttore televisivo americano, ma in quella frase estemporanea c’è tutta la consapevolezza e la sorpresa che Shane MacGowan suscita — e susciterà sempre — in chi avrà la fortuna di incappare nella sua opera. Perché non ci sono più dubbi sul fatto che Shane MacGowan, voce e tradimento delle generazioni passate, presenti e future, rientri di diritto tra i più grandi autori del Novecento.

I'm not singing for the future
I'm not dreaming of the past
I'm not talking of the first times
I never think about the last

Now the song is nearly over
We may never find out what it means
Still there's a light I hold before me
You're the measure of my dreams
The measure of my dreams