Poco più di vent'anni fa, nel finale di Fuga dalla scuola media, Dawn Wiener veniva trascinata in gita a Disneyworld, adattandosi, obtorto collo, non solo a un immaginario, ma anche a un target a cui non sentiva di appartenere: grosso modo quello dei tween, bambini-adolescenti tra i sei e i dodici anni, rincorsi e corteggiati dal marketing. Lungi dall'essere un caso isolato, il film di Todd Solondz esemplifica una tendenza emersa dopo i fasti del kid empowerment ottantesco, quando alcune pellicole indie hanno lasciato trasparire gli abusi della società dei consumi tratteggiando tween recalcitranti, almeno fino a Little Miss Sunshine, impegnati a rifiutare o a sovvertire, più o meno consapevolmente, l'uso delle merci. Insomma, personalità accattivanti che si facevano carico di una critica culturale. Questo, fino a qualche anno fa.  Attualmente, la prospettiva infanzia-consumi appare mutata, ne sia una prova il fatto che nel recente Un sogno chiamato Florida è proprio la fuga verso Disneyworld a sembrare una soluzione. Il cambio di rotta è spiazzante, tanto quanto il pianto inatteso di una bambina che per tutta la durata del film recita la parte della monella anarchica.

Va da sé che ad essere mutata non è soltanto la rappresentazione dell'infanzia, ma tutto un quadro politico-economico sottinteso, dato che molto spesso, nella letteratura così come nel cinema statunitense, l'infanzia, dilaniata tra nostalgia e progresso, risulta essere una cartina di tornasole dei peccati culturali del paese. Ne emerge una rappresentazione che viene periodicamente rinegoziata, non secondo una logica lineare, ossia dall'innocenza alla fine dell'innocenza, quanto piuttosto ciclica.

Così, nello scenario di crisi economica dell'ultimo decennio, alcune pellicole se non proprio indie, almeno non decisamente mainstream, sembrano insistere su una visione utopica dell'infanzia. Da un lato sono emersi film che idealizzano una volontaria esclusione dal consumo e insistono su un approccio (ri)educativo, come Re della terra selvaggia di Benh Zeitlin o Captain Fantastic di Matt Ross; dall'altro, l'attenzione riservata al mondo dei piccoli sembra legata a un'idealizzazione delle ridotte dimensioni, un po'come se la contrazione dell'economia trovasse una metafora nella contrazione fisica.

L'utopia, in questo caso, è ottenere, attraverso il ridimensionamento del sistema, la legittimazione di una statura economica inferiore. Sembra essere questa la traiettoria sottintesa di Un sogno chiamato Florida. Nel film di Sean Baker, il motel Magic Castle è una casa di bambole troppo grande, sproporzionata come il chiosco a forma di gelato gigante, tanto che la piccola Moonee, contesa tra inquadrature ad altezza bambino e grandangolari alienanti, è vittima, più che protagonista, di una distorta scenografia da live action in cui la dimensione degli edifici è talmente imponente da marginalizzarla. Ed ecco che Disneyworld appare il nocciolo di una fantasia di ridimensionamento, il luogo, immaginario e metaforico, in cui Moonee tenta di riconquistare una dimensione propria dell'infanzia, minacciata, oltretutto, da una madre kidult che rischia di usurparle il ruolo di principessa.

Per quanto agli antipodi da un punto di vista estetico, già Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore delineava lo scontro tra grandi e piccini nei termini di uno scontro tra grandezze. Il capolavoro di Wes Anderson istituiva un chiaro parallelo tra mondo dell'infanzia e miniaturizzazione, mostrando un microcosmo a misura di bambino in cui erano gli adulti ad apparire grottescamente fuori misura. Ma i rimandi tra film non finiscono qui, poiché, a costo di scomodare un ragionamento di stampo medievale, il fatto che in Moonrise Kingdom i bambini siano considerati persone piccole li rende paradossalmente affini ai personaggi di Downsizing - Vivere alla grande, un film che rielabora il medesimo concetto in termini fantascientifici. Alexander Payne si fa certo testimone di un trend collaudato, persino in una cultura ossessionata dai consumi come quella americana, per cui è vero che il mini è ormai decisamente più cool del maxi, ma la miniaturizzazione, anziché restare una fantasia snob, è diventata un inevitabile procedimento di autoconservazione. Insomma, in un clima di ricerca della giusta misura, è forse il caso di dire, volenti o nolenti, welcome to the dollhouse.