Ruota, spirale, girandola, arcolaio: gli oggetti rotanti ricorrono nel cinema di Teinosuke Kinugasa a segnalare l’avvitarsi del presente intorno al passato, il giro a vuoto delle paure e delle fantasie sull’asse traballante di una realtà costantemente in pericolo di smarrirsi. Per sovrimpressioni folgoranti questi oggetti compaiono già nei due muti d’avanguardia che fecero conoscere il regista di Kameyama in Occidente: Kurutta Ichipeiji del 1926 e Jujiro del 1928 (nei diciannove mesi che intercorsero Kinugasa girò altrettante pellicole “commerciali”, per lo più chanbara, l’equivalente giapponese dei film di cappa e spada, tra cui il coreografico Oni azami).
Il loro moto circolare impazzito imprime inquietudine drammatica alle transizioni surrealmente belle che segnano le scene decisive per i personaggi, cioè quelle in cui la proiezione dei sensi di colpa o dei sogni a occhi aperti mette in crisi la loro presenza nel mondo. Mondo fatto di luce (e della sua assenza), dato che la materia fondamentale dei corpi e delle cose di Kinugasa è il bianco esplosivo – della cenere, delle lampade, della cipria – che squarcia le ombre dei quartieri di Edo (nome di Tokyo fino al 1868); quindi crisi della luce, interrotta offuscata soppressa sullo schermo dalla rotazione frenetica di quegli oggetti, che trapassano i fotogrammi più che coprirli, e poi definitivamente persa per i protagonisti di entrambi i film.
In Kurutta Ichipeiji, basato su un soggetto di Yasunari Kawabata, il buio man mano inghiotte il guardiano di un manicomio e sua moglie, che vi è rinchiusa. Lo spazio concentrazionario della malattia mentale è teatro per una sfilata di maschere che ammaliano e atterriscono: il sipario si leva sulle piroette estatiche di una ballerina che, con la propria danza tarantolata, contagerà uomini e donne rinchiusi lì; intanto a contatto con gli altri “pazienti” il protagonista, ossessionato dall’aver provocato lui stesso la pazzia della moglie, sembra capire che le loro visioni sono tanto più reali quanto più deformano lo spazio intorno a loro.
Ma tutto è mostrato in maniera vorticosa e volutamente ottundente, per confondere tra loro traumi originari e manie di persecuzione. Il recente restauro, che ha restituito l’imbibizione blu della copia nitrato 35mm originale e integrato i titoli di testa con qualche cartello mancante, rende ancora più angosciante questa discesa nel maelström della follia, il cui montaggio iperespressionista rimesta complessi e allucinazioni in un turbinio inarrestabile di immagini distorte.
Dopo aver visto cinque volte L’ultima risata di Murnau Kinugasa decise di rimuovere le didascalie, elevando ad arte schizofrenica l’oltranzismo anti-narrativo che poté sperimentare per la prima volta grazie a un’autonomia produttiva pressocché totale (e fino a quel momento impensabile per l’industria giapponese dello spettacolo). L’assimilazione degli elementi architettonici della scenografia (telai delle finestre come sbarre, facciate degli edifici affacciati sui canali sempre più strette e claustrofobiche) alle celle di detenzione va di pari passo con l’ottenebramento dei corridoi nel manicomio, labirinto della civiltà moderna da cui l’inserviente non riesce a liberare la moglie né se stesso – e nei cui cubicoli Kinugasa può scatenare il proprio talento di orchestratore di folle in agitazione.
Se Kurutta Ichipeiji è certamente un’opera unica nel panorama cinematografico degli anni Venti (e oltre), azzardiamo però un giudizio controcorrente: Jujiro è il vero capolavoro della diade. Qui la sparizione della luce intesa come crisi della presenza risulta ancora più radicale, e si manifesta nella cecità del protagonista, accecato da un rivale in amore durante un litigio per i favori di una cortigiana.
A Yoshiwara, il distretto a luci rosse di Edo dove saranno ambientati, tra gli altri, l’omonimo film di Ophüls e La strada della vergogna di Mizoguchi, tra abitazioni squallide e vivacissimi bordelli provano a prendersi cura l’uno dell’altra Rikiya, giovane sbandato teneramente innamorato della geisha Oume, e la devota sorella Okiku, su cui mettono gli occhi un balordo che si finge poliziotto e un’avvizzita mezzana, molto simili a un vampiro e a una strega. Le reciproche tragedie non tarderanno a raggiungerli, lui devastato dalla frivola indifferenza della donna amata, lei costretta a uccidere per non essere stuprata (c’è sempre una lama che trafigge la carne nei film di Kinugasa).
Sia in Kurutta Ichipei che in Jujiro c’è un tentativo fallito di salvazione – al marito sta la sorella, come alla moglie sta il fratello – una fuga impossibile verso la luce, prima che sia definitivamente spenta. Solo apparentemente più lineare del predecessore, Jujiro stravolge in verità ogni convenzione dell’epoca nella dialettica tra dissolvenza, controcampo, giochi di luci e ombre: quanta struggente meraviglia nelle gocce di pioggia rappresa tra i capelli dei due fratelli che si sostengono a vicenda una volta trovato rifugio in una baracca abbandonata, che atroce incanto nelle immagini quasi astratte di polveri, fiamme e alberi che passano negli occhi di Rikiya quando si accorge di aver vagheggiato invano la felicità, di dover ripiombare nella cecità, destino di tutti i sognatori.
Anche Okiku si troverà senza più luce a disposizione, se non quella di quattro minacciosi sentieri albini al centro di uno di quei crocicchi fatali cui allude il titolo del film.