Il titolo di questa commedia firmata John M. Stahl potrebbe far pensare a un’ennesima, crepuscolare variazione sul tema del matrimonio, materia che il regista aveva dimostrato, nel corso della sua carriera, di padroneggiare tanto in toni mélo quanto in brillanti farse comiche. Una moglie in più, tuttavia, è soprattutto una commedia degli equivoci e delle false identità: quando un celebrato pittore viene scambiato per il suo maggiordomo, l’artista approfitta dello scambio di persona per godersi un po’ di pace lontano dalle costrizioni della vita mondana londinese, ma non ha fatto i conti con la valanga di complicazioni comportate da questo sadico giochetto. Una vicenda estremamente cara allo sceneggiatore Nunnally Johnson, che ne aveva già tratto due film muti nel 1912 e nel 1915 (entrambi intitolati The Great Adventure), e poi un sonoro nel 1933 (His Double Life).

La quarta stesura del medesimo soggetto produce uno script snello ed efficace, innegabilmente gustoso e immancabilmente british nella sua comicità sagace e autoironica. Stahl si dimostra capace di assecondarne i ritmi e i tempi umoristici, con una macchina da presa agile e sempre al servizio della resa drammaturgica degli eventi. Gli equivoci, le parentesi farsesche e le tante gag prendono vita, poi, grazie a un cast decisamente in parte, a partire dalla coppia protagonista: Monty Wooley è abile nell’alternare registri espressivi e concedersi qualche istrionismo dove necessario, mentre Gracie Fields, più misurata ma altrettanto coinvolgente, fa da contrappunto alla performance mossa del suo partner. L’oggetto di una satira tanto sottile e acuta è, senza dubbio, l’alta società inglese, con i suoi formalismi e le sue rigidità: le cerimonie solenni – il grandioso funerale nell’abbazia di Westminster e il processo in pompa magna – sono i primi e più facili bersagli di un’allegra profanazione che ridicolizza sistematicamente gli idoli e i feticci di una vecchia aristocrazia che oltreoceano non poteva che apparire compassata.

Ancora più puntuale e irresistibile, però, è l’analisi del mondo dell’arte, che Stahl descrive con la lucidità di un sociologo: c’è il grande artista disinteressato al profitto, la piccolissima borghesia che imita le pratiche di fruizione dell’opera d’arte tipiche della nobiltà ma finisce per vedere nei quadri tardo-impressionisti scarabocchi da vendere al miglior offerente, e il mercante d’arte scaltro nello sfruttare questo gap per trarne vantaggio (la contessa chiede: “che te ne pare di quest’opera? Meravigliosa, guarda che pennellate!” il maggiordomo risponde: “sì, fantastico: quel nuovo omnibus a motore l’hanno inaugurato proprio l’anno scorso!”). Quella che Stahl mette in evidenza, insomma, è l’insanabile sperequazione sociale nel saper apprezzare – e gestire discorsivamente – prodotti culturali alti: la satira più spietata, però, è riservata proprio all’aristocrazia di sangue.