Come Jane Fonda in Five Acts (2018), anche Una squillo per l’ispettore Klute (1971), primo film di Alan J. Pakula della cosiddetta “trilogia della paranoia” completata da Perché un assassinio? (1974) e Tutti gli uomini del Presidente (1976), si apre con un registratore che ci dice che Jane Fonda è nei guai. Nel documentario è il Presidente Nixon in persona, il cui stile di presidenza contribuì a diffondere nella società americana la paranoia di essere sottoposti ad una sorveglianza continua, che controlla l’attrice per il suo impegno politico proprio nell’anno in cui girò Klute. Nel film di Pakula, che, insieme ad altri dello stesso periodo come Rapina record a New York (1971) di Lumet e La conversazione (1974) di Coppola, risponde a quel clima di paura di essere costantemente ascoltati, le registrazioni implicano Bree Daniels, prostituta che cerca di cambiare vita, nella scomparsa dell’industriale Tom Gruneman. Quando la moglie e il socio d’affari di Gruneman incaricano del caso John Klute (Donald Sutherland, bellissimo nei suoi silenzi e nei suoi innocenti occhi blu), l’investigatore privato di provincia sceglie proprio Bree come guida per una New York sotterranea dove la ricerca dell’industriale si intreccia con quella di un maniaco che perseguita le prostitute.

Il ruolo di Bree fruttò a Fonda il primo Oscar, validandone una rinnovata immagine divistica in cui l’erotismo pop dell’esploratrice spaziale Barbarella evolveva in una sensualità meno giocosa e più esplicitamente politica, orientata alla messa in discussione delle tradizionali dinamiche di genere, maschile/femminile, e del genere noir secondo una prospettiva femminista. Una squillo per l’ispettore Klute riprende, infatti, convenzioni narrative e formali dei noir degli anni 40 e 50, esplodendole nel clima di paranoia politica degli anni 70, per investigare uno spazio urbano in cui i confini tra gli ambiti di maschile e femminile diventano sempre più sfumati ed incerti.

John Klute è un investigatore solitario come i suoi predecessori ma senza il loro cinismo e la loro disillusione, generati da anni di contatto con corruzione e omicidio. Klute, al contrario, è un personaggio vergine, un provinciale calato (anche letteralmente grazie agli insistiti movimenti verticali della macchina da presa) nella grande metropoli. Significativamente è Bree, femme fatale diventata prostituta in un cambiamento che sottolinea l’oggettificazione della donna, che cerca e inizia il contatto sessuale con Klute, rovesciando i ruoli tradizionali. Femministe come Christine Gledhill hanno criticato questa caratterizzazione come un modo per spostare la femme fatale della tradizione noir in una posizione sempre più alienata e degradata, quindi meno minacciosa per il patriarcato.

Tuttavia, il personaggio di Bree è in grado di mettere in dubbio l’autorità maschile senza venire punita come Brigid O'Shaughnessy ne Il mistero del falco (1941) o Phyllis Dietrichson ne La fiamma del peccato (1944). Il suo lavoro le permette di essere in controllo dell’uomo e, come le confessa il maniaco che la perseguita, di portarne alla luce debolezze e perversioni. Le consente, in ultima analisi, di collegare la condizione di “donna oggetto” da spiare alle dinamiche economiche e politiche di una società americana controllata da un maniacale e paranoico capitalismo aziendale.

Come i noir classici, Klute utilizza estensivamente la convenzione della voce fuori campo affidando però il controllo della narrazione a Bree, non, come tradizione vorrebbe, ad un personaggio maschile. Attraverso i nastri registrati o nei dialoghi con la psicologa, le parole di Bree irrompono sulle immagini, talvolta anche contraddicendo, come nel caso della scena finale, quello che lo spettatore vede. Nel sostenuto gioco di sguardi che caratterizza la pellicola, catturato dalla fotografia di Gordon Willis con i chiaroscuri e i toni sfumati della tradizione noir, lo sguardo di Bree resiste, controlla e guida quello maschile.