Il filo nascosto di Paul Thomas Anderson si apre con una giovane donna che parla ad un interlocutore misterioso: racconta di Reynolds che ha trasformato i suoi sogni in realtà e di lei che in compenso ha donato a lui ciò che più desiderava: ogni parte di se stessa. Il prologo, che nella circolarità del film diventerà epilogo, ci introduce a quello che potrebbe sembrare una semplice storia d’amore ma che in realtà va ad indagare fra le ceneri di ossessioni individuali e giochi di potere che si intrecciano nelle relazioni.
Reynolds Woodcock è un famosissimo stilista londinese dei primi anni ’50 che vive unicamente per il lavoro, aiutato dalla sorella Cyril e ispirato da modelle che transitano nella sua vita privata come meteore. Fino a quando non incontra Alma, una giovane e silenziosa cameriera che diventerà la sua musa e prenderà le redini della sua vita.
Come al solito, quello che ci consegna Anderson è un film complesso in cui, come ha avuto modo di dichiarare lo stesso regista, le vere protagoniste della storia sono tre donne: la sorella Cyril, che sovraintende al funzionamento dell’atelier curando che nessuno disturbi il fratello nella sua fase creativa; il fantasma della madre, che insieme al talento ha lasciato in eredità al figlio un’eterna dannazione e infine Alma, la giovane cameriera che non si farà intimidire da casa Woodcock e dai suoi inquilini.
Daniel Day-Lewis, al suo secondo ruolo da protagonista in un film di Anderson dopo Il Petroliere, ha recentemente annunciato che lascerà le scene: non c’era modo migliore di far rimpiangere la sua futura assenza, perché con questa prova ci restituisce un Reynolds Woodcock alla ricerca maniacale della perfezione, freddo e respingente ma anche infinitamente umano e fragile. Un personaggio che parla attraverso poche e stizzose parole - I cannot start my day with a confrontation (non posso iniziare la mia giornata con una discussione) risponde a chi osa rivolgergli la parola a colazione - e usa il corpo per farci percepire sottili malumori, muti fastidi ma anche un profondo bisogno d’amore e il timore di essere per sempre dannato. Al suo fianco Lesley Manville, nella parte di Cyril, la sorella dallo sguardo di ghiaccio e dal sopracciglio arcigno che però trasuda affetto per il fratello. E infine, ma centralissima, Vicky Krieps dà corpo al fascino ambiguo di Alma (dal latino colei che nutre), celando nei panni di un’ingenua cenerentola una spietata Lady Machbeth (come lei affascinata dai funghi del bosco).
La molteplicità di sfumature di questa storia – che trae spunto dalla biografia di Cristobal Balenciaga - dà modo ad Anderson di procedere con una narrazione ampia, che spazia nei generi: dal melodramma al giallo, toccando atmosfere gotiche, senza mai rendere possibile una definizione netta ma raggiungendo una perfetta unitarietà. C’è infatti spazio per citazioni che rimandano ad Hitchcock, alle sue tormentate figure femminili (Rebecca la prima moglie) così come ai suoi avvelenamenti domestici (Il sospetto, Notorius), ma anche a Kubrick, alla cura maniacale per dettagli e costumi (Barry Lindon) e all’ambiguità e inafferrabilità dei rapporti di coppia (Eyes Wide Shut).
La maestria di Anderson prende forma, oltre che attraverso la sapiente regia, l’accurata sceneggiatura, la studiatissima colonna sonora, anche grazie alla fotografia e ad un uso della luce che sembra direttamente mutuato da Edward Hopper: la luce che entra dalle grandi finestre della casa è la luce radente del grande pittore americano, citato esplicitamente e improvvisamente nei rossi distributori nella stazione di benzina (Gas) che spuntano mentre Reynolds mentre va in campagna, e richiamato indirettamente in tutti gli interni con persone chine, mute, sospese nel tempo così come nelle donne colte nell’intimità della loro sottoveste o nel Victoria Hotel che richiama le case hopperiane del New England.
Eppure tutta questa materia magmatica e gli infiniti echi che ne scaturiscono, sembrano magicamente ricomporsi sotto lo sguardo creatore di Anderson. Quello sguardo che il regista usa non solo dietro ma anche davanti alla camera, come segno di potere per i suoi personaggi: la stessa Alma invita Reynolds a non gareggiare con lei con lo sguardo avvertendolo che lo batterebbe. Ed è uno sguardo, quello di Anderson, che ammanta le cose su cui si posa di ieratica eleganza - che è di fatto la trama non tanto nascosta di cui questo film è tessuto - declinata nei molteplici toni del magenta, che ritornano ossessivamente durante tutto il film: dalle calze all’auto di Reynolds, dagli abiti di alta moda a mille altri particolari.
Una delle prime scene che ci illustra la casa-atelier di Woodcock si snoda come l’elegante coreografia di un balletto: la camera inquadra le sarte che salgono quasi di corsa la scala che si avvita su se stessa, per poi puntare verso l’alto, dove non troviamo un tetto ma una sorta di cupola luminosa. La casa stessa è immersa in un’atmosfera quasi sacra, un tempio in cui si compie la liturgia di un rito profano: la costruzione di abiti da sera dalle linee perfette e dai colori freddi, gelide armature che aiutano le donne a sentirsi più forti (in una continua lotta fra debolezza e potere). Una casa che lo scandire senza sosta di rituali sempre uguali fa però diventare claustrofobica, mentre parallelamente anche il rapporto fra Alma e Reynolds diventa una gabbia dorata. E il disperato rito scaramantico, quel never cursed (mai dannato) che lo stilista nasconde nell’orlo di un preziosissimo vestito da sposa, sarà trovato da Alma, divenuta ormai sacerdotessa col potere di nutrire e di dare e togliere la vita.