C’era una volta a… Hollywood: esplicitamente alla maniera di Sergio Leone, che nelle sue elegie terminali non raccontava la verità ufficiale ma quella mediata, ripensata, reinterpretata dal cinema. Quentin Tarantino è uno che ha sempre fatto un cinema dentro il cinema, cinefilo nella misura in cui l’amore feticista per i film s’incrocia con l’operazione romanzesca di recuperare il tempo perduto che essi rievocano. E quindi esplorarlo, ribaltarlo, possibilmente rivoluzionarlo. Quella dell’ultimo film dell’autore è una “Hollywood story” in purezza: una parabola che si muove in un contesto dove la messinscena è una chiave d’accesso alla realtà perché i suoi abitanti ragionano secondo la logica della finzione. La parte centrale è forse quella più in linea con la scelta di un titolo del genere: il passaggio teoricamente più preciso, in cui, nell’arco di una mattinata, seguiamo le linee narrative dei tre protagonisti. Sono tre abitanti di Hollywood e, al contempo, a vario titolo, tre controfigure.

Rick Dalton (Leonardo DiCaprio) è un attore insicuro e decadente, già star di un telefilm western e da poco interprete di un b-movie in cui incendia i nazisti con un lanciafiamme, quasi parafrasando (anzi: ri-annunciando) i bastardi senza gloria. Sta lavorando sul set di un telefilm western in cui è impegnato come guest star, nei panni del cattivo che da un po’ gli tocca impersonare. È stressato, la notte prima ha bevuto troppo, dimentica qualche battuta. Una piccola attrice petulante lo tratta con un misto di disprezzo e Metodo. Poi, dopo un grottesco soliloquio nella roulotte, torna in scena e offre una performance molto efficace, tanto da guadagnarsi i complimenti della giovanissima collega. Più che un attore, è il ricalco tragicomico di un attore: ne possiede i tic, le manie, le ossessioni. La controfigura di una star – o la sua trasfigurazione – che abita accanto alle star, quelle vere: è, infatti, il vicino di casa di Sharon Tate e Roman Polański.

Controfigura per lavoro, il suo stuntman di fiducia, Cliff (Brad Pitt), è stato estromesso dal set con il pretesto della colluttazione “amichevole” con Bruce Lee (o meglio: un’ipotesi di Bruce Lee a partire dalla sua “vita alternativa” sugli schermi, grande e piccolo). Gironzola per la città a bordo dell’auto di DiCaprio, amico fraterno ai limiti della simbiosi, e, finalmente, offre un passaggio alla ragazzina con cui da qualche giorno si scambia sguardi ammiccanti. Lei cerca un approccio, lui si fa qualche scrupolo per l’età. Finiscono in un vecchio ranch, che Pitt riconosce come il set in cui lavorava fino a pochi anni prima: ora è il covo della famiglia Manson. Pitt non lo sa ancora: è un eroe di guerra, ha un passato oscuro, vive con una cagna vorace e fedele, dalla sua ha solo l’istinto che gli suggerisce di andare via da quella inquietante bizzarria. Non ha la mente intuitiva del protagonista di un thriller. Al massimo, può fare il lavoro sporco: menare e cadere. Al massimo, può usare gli strumenti, i trucchi, gli artifici della finzione per governare (e stravolgere) la realtà: e, quando arriva l’ora decisiva, la controfigura vince.

Nel frattempo, Margot Robbie nel ruolo di Sharon Tate (o meglio: l’ipotesi tarantiniana di Sharon Tate) cammina pimpante verso la libreria. Ha comprato per il marito Polański un romanzo che ha molto amato: Tess dei d’Uberville. Al cinema di fronte stanno dando un film in cui ha recitato con Dean Martin, Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm. La cassiera non la riconosce subito: Sharon/Margot ne è quasi contenta perché vuol dire che sul grande schermo riesce a diventare altra da sé. Dopo l’intervento della maschera, entra in sala gratis e, seduta in platea, coi piedi nudi poggiati sul posto davanti, si gode le risate degli spettatori.

Qui l’operazione è abbastanza articolata. La maschera non riconosce in Sharon/Margot la stessa Tate di La valle delle bambole. Tarantino ricalca Sharon/Margot a partire da assonanze, rimandi e suggestioni del ruolo comico interpretato in Missione compiuta. In sala, Sharon lascia il posto a Margot che si rispecchia nella Sharon sullo schermo: la sovrapposizione regge nonostante una somiglianza solo ideale, l’attrice che (re)interpreta il personaggio reale diventa spettatrice del lavoro del personaggio stesso, a sua volta modello per la sua trasfigurazione. Il pubblico si diverte di fronte a Sharon, la controfigura Robbie ride compiaciuta. Ecco che, allora, riaffiora Margot, creatura e portavoce di Tarantino, in un’estasi che confina con l’omaggio commosso. Le risibili polemiche sul numero inferiore di battute di Robbie rispetto a DiCaprio e Pitt si infrangono al cospetto di un momento così monumentale: Robbie parla poco perché lascia parlare Tate. Il cinema (ri)creato fa vincere il cinema ritrovato. Sotto l’ode nostalgica, oltre la polvere e la tristezza, C’era una volta a… Hollywood si rivela uno scatenato e toccante revenge movie dove le controfigure e Tarantino si vendicano della realtà.