Il titolo italiano, Una storia vera, non riesce a essere suggestivo di tutto quanto definisce il film di David Lynch quanto il titolo originale, The Straight Story.
In primis, c'è il significato letterale: è la storia di Alvin Straight che, a 73 anni e piuttosto malandato di salute, decide di andare a visitare il fratello con cui non parla da molti anni causa un litigio, dopo aver saputo che ha avuto un grave infarto. Il tragitto dall'Iowa al Wisconsin è lungo poco meno di 400 chilometri che parrebbero insormontabili, se come Straight ci si muove a fatica aiutandosi con due bastoni, e non si può nemmeno guidare perché la vista non è più buona. Ma Straight ha un piccolo trattore da giardino, di quelli per tosare l'erba, e dunque il viaggio può essere percorso a 8 chilometri l'ora, augurandosi di arrivare in tempo.
Se c'è un aspetto che il titolo italiano connota meglio di quello originale, è il fatto che la storia di Alvin Straight sia realmente accaduta, cinque anni prima dell'uscita del film nel 1999, finendo nelle cronache e catturando l'attenzione di Mary Sweeney. Sweeney che ci scriverà sopra una sceneggiatura assieme a John Roach, la sottoporrà a Lynch – all'epoca suo compagno – e che del film sarà infine anche montatrice e co-produttrice. E c'è un parallelismo emozionante con l'impresa monumentale del protagonista Richard Farnsworth, lanciatosi nel suo ultimo lavoro a 78 anni, già malato terminale di cancro, e che dopo una lunghissima carriera da caratterista agguanterà in extremis il ruolo della vita nonché una nomination all'Oscar (morirà dopo pochi mesi).
Questa storia però è “straight” anche perché è giusta e onesta: in un racconto on the road che fa da diretto contraltare a Cuore selvaggio, c'è un'apertura all'eventualità del pericolo e all'ignoto degli incontri che si risolve in una accettazione della condizione umana e del dolore, e nella possibilità del conforto fra consimili. E solo con quella lentezza che permette di osservare l'erba al lato della strada e accorgersi che è bellissima, si possono vedere realmente le persone e il paesaggio, magnificamente fotografato da Freddie Francis e scenografato da Jack Fisk (non a caso collaboratore abituale di Terrence Malick, oltre che amico fraterno di Lynch).
Infine, questa storia è “straight” perché è raccontata con un linguaggio lineare e diritto, inserendosi nella filmografia di Lynch fra i contortissimi Strade perdute e Mulholland Drive in una maniera che ha lasciato esterrefatti gli estimatori del regista. Tanto da produrre infinite analisi sui possibili (e impercettibili) sottotesti del film, con Lynch così languidamente sornione da definirlo “il mio film più sperimentale”. In realtà il capolavoro ironico della sua poetica è apparire così strambo agli occhi dei più, da lasciare tutti a interrogarsi smarriti quando utilizza forme che rientrano nei canoni.
D'altronde, da “James Stewart venuto da Marte”, secondo la celeberrima definizione di Mel Brooks, possiamo anche aspettarci che ogni tanto (non solo qui, anche in The Elephant Man) gli equilibri pendano più dalla parte dell'attore – l'americano retto e gentile per antonomasia – che del pianeta sconosciuto: ecco qui una storia commovente di buoni sentimenti consolatori, e se pensate che possa essere solo sdolcinata e dozzinale vi siete sbagliati, perché è da non perdere.
Così come da non perdere è la scena finale fra Richard Farnsworth e Harry Dean Stanton, degna di essere insegnata in qualsiasi scuola di recitazione fra questo mondo e l'altro.