Presentato alla Berlinale e ora su MUBI, Uppercase Print e il suo autore, Radu Jude ci ricordano una volta di più quanto negli ultimi anni la Romania stia sfornando nuovi talenti a profusione, come una vena inesauribile, rendendola una delle cinematografie europee più interessanti del momento. Jude si confronta con la storia di una nazione che ancora non accettava d’essere Europa, né di allinearsi completamente alla politica Russa, scegliendo invece di crogiolarsi in un’illusione autarchica fatta di persecuzioni e filastrocche. Vengono mostrati spezzoni di programmi tv dell’epoca, alternati con messinscene asettiche e apatiche di indagini poliziesche, e null’altro. Quel che emerge è un cortocircuito fra storia e messinscena, inscindibili l’una dall’altra, i cui contorni si sfumano e amalgamano reciprocamente.

Alla fine del film è difficile stabilire quale di queste due anime prevalga, probabilmente non ha neppure senso chiederselo, visto che Uppercase Print è la parodia, prima ancora che di un regime, della discrepanza fra realtà e autorappresentazione. La propaganda e la censura non si espongono mai per quello che sono, sgorgano da canzoni per bambini, balli folkloristici e stucchevole autocelebrazione. Mentre Ceausescu, il dittatore dell’epoca, si fa immortalare impegnato in balli di gruppo in costume i romeni fanno la fila per il cibo razionato, ma questo controcampo ideale non è soggetto da prima serata, e come tale va epurato. Jude si inserisce in quel corpus di opere che fanno delle strategie di comunicazione il punto di partenza per descrivere un’epoca, come ad esempio Mad Men o No – i giorni dell’arcobaleno, e mette in scena la realtà di una nazione privata della possibilità di rappresentarsi, farsata da un regime stanco, spettro paranoico e incattivito della sua stessa antica potenza, destinato in breve a soccombere. Come smascherare l’ipocrisia di una rappresentazione distorta?  Mostrandola per quello che è: una parodia.

A conti fatti, Uppercase Print è una parodia, la parodia di un regime che è a sua volta la parodia di uno stato, e quando si vuole denigrare qualcosa già di per sé ridicolo non c’è bisogno d’altro che esporlo. Radu pone la comunicazione come luogo di resilienza, di riappropriazione della storia, dopo che questa era stata farsata. Si prende una rivincita contro lo spettacolo negandogli ogni concessione, perché lo spettacolo ha mentito per troppo tempo, e quindi i suoi attori non recitano, declamano da fermi senza inflessione, freddi e imperscrutabili. Uppercase Print enuncia (e così facendo denuncia) un discorso ufficiale in cui folklore e modernità si intrecciano, mostrando un paese proteso ad un futuro prosperoso e ben ancorato alle proprie tradizioni, in cui controllo e punizione sono la norma e chiunque osi scrivere Vogliamo cibo, vogliamo diritti, vogliamo libertà viene criminalizzato.

La sua è un’opera necessaria, la prova che la resistenza può assumere molte forme, e la cui clinica analisi culmina in un finale amaro, pregno della consapevolezza che il passato non cede mai completamente il passo al presente, ma si trascina e cerca di trascinarlo a sua volta verso il basso.