Fin dalle sequenze e inquadrature d’esordio, Antonioni sottende un parallelismo tra due vicende, quella della giovane Giuliana e del divenire – che, in realtà, è più un involversi che evolversi – della borghesia italiana settentrionale. L’espressione di Monica Vitti è il volto dell’angoscia di Giuliana, sentimento inteso nei termini di una destabilizzante vertigine nei confronti delle infinite possibilità dell’esistenza: non c’è data una spiegazione rispetto alle ambiguità umorali della donna, se non per la menzione a un incidente che l’avrebbe poi rinchiusa in una clinica. Tuttavia, è lecito pensare che l’incidente sia una specie di alibi, un motivo d’afflizione concreto e tangibile cui aggrapparsi per evitare di sprofondare nel nulla, in quella dimensione di vana profondità spaziale in cui Antonioni immette i suoi personaggi.

Giuliana voleva avere tutto, ma le mancava il pavimento. In una Ravenna ridotta a deserto industriale, lei percepiva il vuoto sotto i piedi e l’estraneità che provava nei confronti del mondo, si faceva ancora più chiara e angosciante al momento del contatto con le altre persone, traducendosi, dietro ogni nevrosi esperita all’amico Corrado e le esclamazioni di disperazione, in uno stato di assoluto quietismo e inazione.

Si era già osservato un confronto tra Antonioni e lo scultore italiano Alberto Giacometti, ancora più evidente nel primo film a colori del regista ferrarese. Entrambi creano un umano frammentario, esseri deformati dalla gravità dell’esistenza destinati a confrontarsi con l’esperienza dell’uscire da sé di una comunicazione che terminerà in conflitto.

“Ogni volta che ho cercato di comunicare qualcosa, l’amore non c’era più”, ricordando le parole della stessa Vitti in La notte (1961). In una realtà su cui è spiovuta la grigia polvere della contemporaneità, dove “in mezzo agli alberi passano le navi” – e la fotografia di Carlo di Palma restituisce tutto il senso di scarnificazione del tutto per una maggiore aderenza al grigiore della società consumistica – ci si mette a riparo dalla vita, come la protagonista di Persona (1966). Scegliendo l’immobilità e un mutismo interiore, sia Giuliana che Elizabeth Vogler\Liv Ullmann esperiscono il dolore spasmodico della nausea e di quella sensazione di amaro distacco con gli oggetti e le cose del mondo, in seno alla propria solitudine.