La seconda parte della retrospettiva, iniziata lo scorso anno, dedicata dal Cinema Ritrovato ai film prodotti della Fox Corporation a cavallo tra gli anni Venti e i primissimi anni Trenta offre una selezione di film variegata. Offre anche la possibilità di approfondire quella manciata di anni in cui nelle Major statunitensi il cinema classico si stava riformando a livello stilistico, linguistico e visivo. È il periodo in cui il cinema statunitense si stava adattando al sonoro, rimanendo, per così dire, bloccato dall'esigenza della parola e, di conseguenza, da un impianto inevitabilmente teatrale e da una generale staticità. Sono gli anni, quelli a cavallo tra i due decenni, in cui la grammatica classica imponeva le sue regole nella maniera più ferrea, bloccando le cineprese alle esigenze dell'invisibilità. Questa ricostruzione è certamente in buona parte vera, ma, come tutte le riletture della storie del cinema, se accettata in maniera eccessivamente netta diventa limitante e non permette di cogliere le eccezioni, le innovazioni e le complessità che sobollivano. Almeno due film di questa sezione mostrano infatti una certa varietà stilistica e una volontà di usare in maniera meno bloccata le potenzialità del linguaggio, cercando un maggiore equilibrio tra "parola" e "immagine"; in qualche modo, sperimentando.
Partiamo da Surrender ( 1931 ) di William K. Howard. Anche Howard è stato protagonista di una sezione della scorsa edizione del festival. Occasione che ha permesso di riscoprire un regista rimasto nelle zone d'ombra della storiografia più diffusa e accettata, ma capace di avere una poetica coerente nascosta tra le righe, dei segni riconoscibili che ritornano in film di differenti tipologie e una certa agilità nel muoversi tra le maglie imposte dalle regole della classicità senza venirne soffocato; apparendo anche, riscoperto oggi, sotto più di un aspetto moderno, quasi anticipatore di tendenze e "stili" che sarebbero esplosi successivamente. Chi ricorda The Power and the Glory (1933) può ricordare certe affinità con Quarto potere, legate tanto al fatto che entrambi raccontano l'ascesa e la caduta di un magnate, quanto alla centralità di soluzioni stilistiche come la profondità di campo e l'uso significante del gioco tra luci e ombre. Anche in Trasatlantic (1931), film corale ambientato negli spazi stretti di una nave, decisive erano la mobilità della cinepresa, rara per il cinema statunitense dell'epoca, la centralità delle luci e quella della profondità di campo.
Questo virtuosismo certamente ancora gentile e solamente accennato ma capace di apparire oggi come uno scarto alla regola, torna in Surrender, melodramma bellico e pacifista ambientato lontano dal fronte, nella scenografica e polverosa cornice di un castello prussiano. In questo luogo sospeso tra passato e presente, le notizie dai campi di battaglia della grande guerra regolano i rapporti tra la giovane castellana, un prigioniero francese, un reduce prussiano idealista e intellettuale "suo malgrado" e un cinico capitano dell'esercito. È un film efficace e coinvolgente per vari motivi. Tra questi, quello che qui più ci interessa è proprio la presenza di certe soluzioni stilistiche e visive. Si noti innanzitutto una certa mobilità della cinepresa, evidente fin dalla sequenza in cui appare la giovane donna, accolta da un doppio movimento che prima la raggiunge in cima alle scale e poi la abbandona tornando nel salone e ritrovando gli altri personaggi e il loro delicato discorso. Oppure, la profondità di campo e la capacità di raccontare vicende diverse nei vari piani dell'inquadratura, evidente nella sequenza dell'arrivo dei prigionieri francesi. Questi infatti, col primo piano del capitano nel suo ufficio, appaiono "incorniciati" dalla finestra sullo sfondo, dentro la quale si svolge una seconda, più movimentata e drammatica vicenda parallela a quella del dialogo in questione. Momento che è seguito da una sequenza altrettanto furiosa grazie ad un montaggio più veloce della media del cinema statunitense dell'epoca, con cui viene sottolineata l'angoscia e la paura dei volti dei prigionieri. Infine, il gioco tra luci ed ombre è centrale per esempio in uno dei momenti più suggestivi e, a livello immediatamente estetico, più belli di Surrender; il confronto decisivo tra la donna e il reduce idealista e disilluso, illuminato da un fascio di luce quasi fiabesco che entra dalla finestra e che isola i personaggi alle loro amare considerazioni.
Se Surrender è un melodramma bellico, in The Sea Wolf (1930) di Alfred Santell, tratto dal romanzo omonimo di Jack London, il melodramma accompagna il film d'avventura ambientato nell'Oceano. Anche in questo caso sono centrali i nodi di rapporti sentimentali che coinvolgono più persone: una coriacea, orgogliosa e allo stesso tempo malinconica donna, un uomo di città travolto dal fallimento, dalla disillusione e da un passato ingombrante e un violento e sadico, ma anche stranamente intellettuale, capitano di un vascello. Anche qui, aldilà del coinvolgimento nato dal giusto mix di azione e sentimenti e dal ritmo che non offre cali, troviamo una serie di soluzioni visive e tecniche che rendono il film di Santell particolarmente interessante.
È un film tutt'altro che statico e per nulla teatrale. Grazie all'utilizzo del procedimento Movietone che permetteva di sincronizzare il sonoro all'immagine anche sfruttando spazi più vasti e permettendo una certa mobilità della cinepresa, viene sfruttata al massimo la location della nave e la mdp diventa così libera di posizionarsi e di vagare per cogliere al meglio l'adrenalina delle sequenze d'azione e quella dei rapporti in continua tensione. Come momento significativo, la sequenza in cui il giovane uomo, vessato dal capitano, viene costretto ad una rischiosa e potenzialmeente letale arrampicata sull'albero maestro; la cinepresa, con un lento movimento, "circumnaviga" la vela, partendo dall'espressione soddisfatta del sadico lupo di mare, salendo fino a cogliere il protagonista in estrema difficoltà a due passi dal cielo e scendendo dall'altra parte del ponte, dove chiude sul volto terrorizzato della donna. Riassumendo così con un unico movimento, senza ricorrere al più tipico campo/controcampo, la totalità degli stati d'animo e la delicatezza dei legami di questo triangolo.
Per concludere sia Surrender che The Sea Wolf diventano, con le loro particolarità tecniche e stilistiche, non tanto esempi di sperimentazioni, modelli e innovazioni che sarebbero state poi recuperate e sviluppate con maggiore assiduità, quanto suggestioni che invitano a riconsiderare con maggiore elasticità la stagione della classicità statunitense nei primissimi anni trenta, con un approccio meno vincolato al rigido rispetto delle regole della classicità e imposte dall'adattamento al sonoro. Un approccio che permetterebbe di scoprire film e registi in grado di muoversi più liberamente tra queste maglie, in fin dei conti, non sempre così soffocanti.